È da un paio d’anni che apriamo i nostri Kalporz Awards (vedi 2021 e 2020) con un cappello introduttivo in cui ripercorriamo per sommi capi cosa hanno fatto gli altri giornali e siti musicali di tutto il mondo. Nel tempo questa funzione è stata presa in carico, dopo Metacritic, da altri siti che – come AlbumOfTheYear -ripubblicano pari pari le altre classifiche e anzi calcolano pure un riepilogo ragionato di tutte le classifiche, per cui le info le si possono ritrovare in maniera più chiara e completa altrove, ma non vorremmo rinunciare a qualche accenno su quale vento ha tirato quest’anno annotandolo anche dall’esterno e non solo dall’interno di Kalporz. Mattatrice è stata certamente Beyoncé, finita con il suo “Renaissance” al 1° posto in ben (fino ad oggi) 9 classifiche tra cui Pitchfork, Rolling Stone, Vulture e Popmatters, nell’ambito di una predominanza della musica al femminile (nei primi 10 posti della classifica riaggregata troviamo 6 artiste o band capitanate da donne: Beyoncé, Rosalía, Big Thief, Wet Leg, Alvvays e Angel Olsen). Verrebbe comunque da dire che, a parte Beyoncé e forse anche Rosalía, la frammentazione la fa sempre da padrone, e ciò è dovuto a due fattori, il primo noto e il secondo più opinabile: (1) l’enorme mole di produzione musicale dell’epoca streaming amplificata dalla possibilità di maggiore concentrazione in studio di registrazione delle due annate Covid, (2) la mancanza di veri album inter-generazionali che mettano d’accordo tutti o comunque si impongano in maniera automatica e naturale.
A Kalporz invece l’orizzonte non è mai stato così poco anglofono o comunque di estrazione diversa da quella inglese/americana: due italiani (e sapete che diamo spazio solo a quello che veramente conta nella Penisola) , due catalane, una colombiana, una band slovena… il mondo si materializza nella musica che conta e anche qui a Kalporz si meticciano gli ascolti. Ma non paiono esserci trend definitivi: il pop, certo nuovo ed evoluto, si fa rincorrere dall’indie-rock ma nella gara anche il cantautorato acustico fa la sua parte così come i territori digitali e quelli hip-hop. Non ci sono più regole da tempo e anche qui si rimane fedeli a un solo imperativo categorico: la ricerca della musica bella o, meglio, quella che ci piace. Anzi, quella ci rappresenta.
20. DANGER MOUSE & BLACK THOUGHT, “Cheat Codes”
Danger Mouse non è nuovo all’hip-hop, avendo collaborato con Mf Doom in “Dangerdoom” (2005), e questa volta ha rifatto centro, con featuring illustri (A$AP Rocky, Run The Jewels, MF DOOM, Michael Kiwanuka, Joey Bada$$, Russ, Raekwon, Conway the Machine) e un riflettore tutto puntato sul frontman di The Roots. Insomma, quando due giganti di due mondi molto vicini, R&B e hip-hop, uniscono le forze, il risultato non può che avere un valore elevatissimo.
19. BILL ORCUTT, “Music For Four Guitars”
Dopo “Made Out of Sound” dell’anno scorso, album di improvvisazione quantomeno inusuale – le parte di batteria di Corsano non sono state registrate insieme a quelle di Orcutt – il musicista americano continua a sperimentale scrivendo musica per un quartetto di chitarre di quattro elementi, anche se poi alla fine le chitarre sono tutte suonate dallo stesso Orcutt. Il risultato è travolgente: un’intelaitura sonora stratificata, minimalista in cui la ripetizione è la chiave di volta di un chitarrismo che riesce a creare un pathos ipnotico.
18. MARINA HERLOP, “Pripyat”
Al suo terzo album, uscito per la berlinese PAN, Marina Herlop unisce un’originale scrittura pianistica a un intreccio di voci che la inseriscono in un connubio perfetto tra il pop e la sperimentazione. Un disco ben fatto, ma che riesce a non prendersi troppo sul serio.
17. NILüFER YANYA, “Painless”
Fuoco alle polveri: con il suo secondo disco “Miss Universo” Nilüfer Yanya ha deciso di regalarci un album che non fa sconti a nessuno. A tratti incendiario, in altri momenti dolente, catartico sul finale: una piccola gemma in cui le impolverate sonorità alt-rock tornano a luccicare, ispirate e rilette con sorprendente gusto contemporaneo. Senza esgerare, “Painless” è uno di quei dischi che cambiano il corso di una carriera: il futuro ci confermare quella che non è – appunto – una profezia.
16. ALVVAYS, “Blue Rev”
Il terzo album della band canadese guidata da Molly Rankin, cinque anni dopo “Antisocialites”, segna una virata netta verso lidi pop (“Very Online Guy”) pur mantenendo il taglio shoegaze che ce li ha fatti conoscere in “Pharmacist” e “Easy On Your Own?”, l’esplosiva doppietta posta in apertura. Quattordici brani che si avvalgono di una produzione di Shawn Everett, già con The War On Drugs e Killers, molto di impatto e contemporanea per suonare come gli ultimi Wolf Alice.
15. SHYGIRL, “Nymph”
“Nymph” è, probabilmente, il debutto (lungo) dell’anno. Blane Muise da Londra muove da basi hip hop e condensa in mezz’ora una scrittura personale e dal gusto raffinato, nella quale trovano spazio pop elettronico e ricami UK bass, sorprendenti decostruzioni club e un cantato sensuale che spesso sembra cullato una sorta di r’n’b sintetico e vagamente futuristico. Shygirl promette di diventare grande in fretta.
14. BIG THIEF, “Dragon New Warm Mountain I Believe in You”
I Big Thief hanno scelto di osare come mai avevano fatto in passato. Non c’è solo il lirismo intenso e sensibile che avevamo già imparato a conoscere, ma anche la ricerca di una maggiore versatilità in termini meramente sonori: Adrianne Lenker e soci raccolgono e cementano tanto di ciò che avevano seminato in questi anni, aggiungendo però ancora qualcosa di nuovo e dimostrando di poter battere sentieri diversi senza perdere identità o intaccare un generale senso di coerenza e omogeneità in oltre un’ora e venti di musica.
13. WEYES BLOOD, “And in the Darkness, Hearts Aglow”
Weyes Blood completa quel percorso verso le sonorità dei primi ’70 di gruppi come The Carpenters e Carly Simon, quel soft rock elegiaco in cui la facevano da padrone il pianoforte e certe atmosfere evocative, già iniziato con l’eccelso “Titanic Rising” ma facendo sottrazione di quella piccola parte sintetica che c’era ancora nell’album del 2019. “And in the Darkness…” diventa quindi una sorta di ripartenza dove tutto è distrutto, con una strumentazione basica se non primordiale come può essere quella di pianoforti e orchestrazioni di violini per marcare la necessità di costruire il nuovo mondo dalle fondamenta.
12. HEITH, “X, wheel”
Dopo vari EP, il boss di Haunter Records pubblica il suo primo LP per la PAN di Bill Kouligas, ed è subito uno dei casi discografici dell’anno. Heith ci regala un rituale per un’umanità sopravvissuta al disastro, un affresco new-folk tra chitarroni ed elettronica dove persone e spiriti convivono in un underground esoterico.
11. ŠIROM, “The Liquified Throne Of Simplicity”
Un disco fuori dal tempo e fuori dal mondo, il terzo lavoro del trio sperimentale sloveno è una ridda di suoni, timbri e pulsazioni per una musica che è contemporaneamente di tutti e di nessuno. Echi folk, world, e di psichedelia; si passa in velocità ma con mirabile equilibrio da toni mitteleuropei a sonorità nordafricane, il tutto con un’espressività con pochi eguali.
10. CATERINA BARBIERI, “Spirit Exit”
Ogni uscita di Caterina Barbieri ormai rappresenta un punto di passaggio obbligato per parlare dei migliori dischi dell’anno. A questo giro la compositrice elettronica confeziona la prima vera release per la sua nuova label light-years introducendo in maniera considerevole la sua voce, e discostandosi un poco dagli arpeggi minimalisti in eurorack per cui tutto il mondo ha imparato ad ammirarla.
9. YAYA BEY, “Remember Your North Star”
Ricordati da dove vieni. Ricordati chi sei, perché sei al mondo e perché non puoi permettere a niente e a nessuno di distrarti dai tuoi obiettivi. Ricordati sempre delle tue radici e non lasciare che qualcuno provi a strappartele. Yaya Bey condensa questi diktat in un album che attraversa elegantemente hip-hop, soul, jazz e R&B e prova a raccontare cosa significhi essere una donna nera oggi. Bey lo fa muovendosi entro un piano narrativo conciso e coeso, cantando di relazioni ingombranti, di sesso e di dolore con uno sguardo attento e sempre lucido e acuto.
8. LUCRECIA DALT, “Ay!”
La colombiana María Lucrecia Pérez López, che da anni vive in pianta stabile a Berlino, confeziona il disco più convincente della sua carriera, un LP che dipinge un sentiero sperimentale fangoso e labirintico, pieno di ostacoli e di ombre, con movimenti e lineamenti raffinati e policentrici che costruiscono paesaggi della mente deliranti e sconcertanti. È quasi un disco iniziatico, che prova a pulsare alla medesima frequenza della terra che sta sotto i nostri piedi.
7. BEACH HOUSE, “Once Twice Melody”
Ci sono chitarre acustiche piumate, sintetizzatori analogici acquosi e cambi di accordi che esplodono come fuochi d’artificio contro il cielo notturno, e il tutto è stato mixato per enfatizzarne i contrasti sfumati e le dimensioni gonfiate. Questo disco appartiene totalmente ai Beach House nella sua forma più estrema e sperimentale, un dream pop tendente allo shoegaze, che sembra cambiare ad ogni ascolto, pur restando lo stesso.
6. FONTAINES D.C., “Skinty Fia”
Bisogna finirla di dire che sono derivativi: i Fontaines D.C. assomigliano ormai solo a loro stessi, e questo terzo album dimostra che la loro poetica si sta facendo sempre più definita. Se c’è una band che riesce a tracciare un ponte tra chi anelava, negli scorsi decenni, una rivoluzione rock che non si è compiuta del tutto e chi oggi non riesce a trovare il giusto gusto nel pop che ha invaso il campo di gioco, beh, quella band sono proprio i Fontaines D.C.
5. THE SMILE, “A Light For Attracting Attention”
Le coordinate della bussola servono a poco: il piacere qui, sia per l’ascoltatore che per gli autori, è evidentemente quello di perdersi per poi ritrovarsi, in un atto di resa tanto giocoso quanto maturo. Più ci si addentra tra i solchi dell’album, più cresce nell’ascoltatore la duplice sensazione tanto di vagare senza punti fermi, quanto di stare esplorando un unico territorio. The Smile sono un gruppo infuso di energia e voglia propria, una sensazione tanto di apertura quanto di arrendevolezza, di rinascita – e perché no, anche di leggerezza – per aver perso il controllo e incontrato una diversa libertà.
4. BEYONCÉ, “Renaissance”
Il settimo album studio della star vede Bey tributare la black music – americana e non solo – quasi in ogni suo aspetto, virando soprattutto, come aveva testimoniato il singolo anticipatorio “Break My Soul”, verso sonorità, ritmi e arrangiamenti house e dance che fino a oggi erano raramente rintracciabili nel già amplissimo panorama musicale di Queen Bey.
3. KENDRICK LAMAR, “Mr. Morale & the Big Steppers”
Le produzioni colpiscono come già in “DAMN.” per varietà ed eterogeneità: non strizzano troppo l’occhio all’iper contemporaneo né si adagiano sul gusto classico della West Coast o del G-Soul e integrano molti violini e orchestrazioni che danno un tocco più opera ed epico in alcuni passaggi. I riferimenti e gli scenari del suo sterminato universo lirico si arricchiscono di un nuovo filone narrativo, quello della famiglia a partire dal sensazionale scatto di copertina della fotografa Renell Madrano. Ancora un inquieto e tormentato capolavoro nell’esaltante parabola umana del “good kid” di Compton.
2. SUDAN ARCHIVES, “Natural Brown Prom Queen”
Il Guardian ha parlato di post-genre artist, e forse non a torto: nei nuovi brani prendono molto più spazio che in passato le ibridazioni sonore, per una miscela che fonde con stile e fascino elementi dell’hip hop e dell’r’n’b, della club music e della tradizione africana. Se “Athena” già dal titolo ci mostrava un’artista in rampa di lancio e in grado di concepirsi alla stregua di una dea, in “Natural Brown Prom Queen” Sudan Archives pare dimostrare di saper cambiare senza snaturarsi, cimentandosi con ammiccanti composizioni dal sapore smaccatamente pop.
1. ROSALÍA, “MOTOMAMI”
È il disco della consacrazione definitiva dell’artista catalana. Il flamenco è superato, perché in “Motomami” c’è una quantità di elementi decisamente superiore rispetto al passato. Rimane un’estetica ormai marcatissima, ma c’è una spinta robusta e coraggiosa verso un nuovo paradigma (latin) pop, che l’artista catalana è ormai in grado di interpretare con la grazia di chi ha raggiunto un grado di consapevolezza tale da poter ambire a riscrivere le regole commerciali esistenti.
(la Redazione)
KALPORZ AWARDS HISTORY (ex Musikàl Awards):
Kalporz Awards 2021 (Low)
Kalporz Awards 2020 (Yves Tumor)
Kalporz Awards 2019 (Tyler, The Creator)
Kalporz Awards 2018 (Idles)
Kalporz Awards 2017 (Kendrick Lamar)
Kalporz Awards 2016 (David Bowie)
Kalporz Awards 2015 (Sufjan Stevens)
Kalporz Awards 2014 (The War On Drugs)
Kalporz Awards 2013 (Kurt Vile)
Kalporz Awards 2012 (Tame Impala)
Kalporz Awards 2011 (Fleet Foxes)
Kalporz Awards 2010 (Arcade Fire)
Kalporz Awards 2009 (The Flaming Lips)
Kalporz Awards 2008 (Portishead)
Kalporz Awards 2007 (Radiohead)
Kalporz Awards 2006 (The Lemonheads)
Kalporz Awards 2005 (Low)
Kalporz Awards 2004 (Blonde Redhead, Divine Comedy, Franz Ferdinand, Wilco)
Kalporz Awards 2003 (Radiohead)
Kalporz Awards 2002 (Oneida)
Kalporz Awards 2001 (Ed Harcourt)