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Nuovo progetto per il fumettista pisano: un’epopea galattica, divisa in tre atti, per fare ridere. Ne abbiamo parlato con Gipi a Lucca, allo stand di Rulez.
L’ambiente offerto dalla casa società di produzione Rulez, alla sua prima partecipazione lucchese, è volutamente informale. Tavoli, sedie, qualche divano e una scenografia presa in prestito direttamente dal Circo Togni. Ci si siede a un tavolo che potrebbe essere quello di un bar e ci si espone a reciproche confidenze, come se quello spazio immerso nel clamore fosse la cabina di un treno.
Un contesto nel quale è stato facile uscire dai ruoli imposti da un’intervista. A tenere banco c’è Barbarone, l’ingenuo astronauta che sarà protagonista di una trilogia galattica interamente realizzata da Gipi, ma non solo; l’incontro è anche l’occasione di parlare del suo rapporto con le opere passate, della rinnovata consapevolezza del valore dei rapporti con le persone e per volgere uno sguardo sul paese che abbiamo intorno.
Buongiorno Gipi e bentornato a Lucca. È finalmente tornata una fiera assolutamente partecipata e tu sei presente con un progetto nuovo, Barbarone, che rappresenta qualcosa di molto diverso da tuoi ultimi lavori. Quindi, racconta, chi è Barbarone?
Si fa presto, Barbarone è il primo volume di una trilogia comica che vuol dire comica; ho fatto una scemata per ridere, un fumetto che facesse ridere me per primo perché ne avevo bisogno.
Di fondo c’è una storia orizzontale abbastanza seria che si estenderà su tre volumi, ma l’obiettivo resta divertire. Barbarone è un esploratore spaziale del futuro, che vive tante avventure con una stupida ingenuità.
È caratterizzato da un grande entusiasmo verso ogni forma di vita nuova che incontra, si tratta di un ingenuo che affronta con entusiasmo le avventure, che spesso si rivelano enormi fregature.
In questo primo volume passa dalle scimmie erotomani, che fraintendono quello di cui parla in chiave sessuale, a un carcere galattico. Assieme a lui incontriamo i suoi due compagni di avventura che lo accompagneranno poi per tutta la trilogia: Gogo, un narcisista ipersensibile, e il cinico Pozza di piscio.
L’impronta comica data a Barbarone nasce da una volontà di cambiare registro. Avevi la necessità di far ridere, dopo l’ultimo volume dedicato a tua madre?
Sì, assolutamente. Quando ho iniziato Barbarone l’ho fatto proprio perché stavo in un periodo molto triste e un mio caro amico, Giovanni Guerrieri, che poi è l’attore dal quale ho preso anche la fisionomia di Barbarone, un giorno mi disse al telefono: “Fai Barbarone!“
Barbarone era un’idea che ho avuto nel 2001 per un cortometraggio con Giovanni protagonista e che poi avevo non solo non fatto ma anche dimenticato. E lui, che mi sentiva in un brutto momento insisteva: “Sì, Fai Barbarone!“
E io, “Ma che cazzo dici?“
“Fai Barbarone, fallo a fumetti!“
Io ho provato, ho iniziato e non ho più smesso.
È stato anche molto istruttivo per me, proprio per capire la forma da dare alla comicità.
A volte mi ricordo che lavoravo su una tavola e mi bastava inserire un tempo di silenzio tra una battuta e l’altra, perché la seconda battuta facesse ridere, me per primo.
A volte mi bastava spostare l’angolo di uno sguardo di 20°, perché una vignetta che era insipida facesse ridere.
In pratica ho imparato la tecnica mentre ci lavoravo e nel farlo gli ho dato anche una forma grafica particolare. Barbarone non ha vignette. Ci sono solo delle bande orizzontali, nemmeno definite, con rischio anche di saltare da una battuta all’altra, ma mi serviva che fosse realizzato così.
Nel farlo sei anche tornato al bianco e nero.
Quello è forse un mio limite, non riesco a immaginare la comicità con un disegno più elaborato del tratto a sketch bianco e nero. Tratto e assenza di colore consentono la rapidità della battuta sferzante, che pretende tempi comici serrati.
Se io ti preparo una vignetta elaborata là dove invece serve velocità per rendere uno scambio di battute, ti rubo i tempi che ti servono. Per questo lo sketch, almeno per come lo uso io, è il mio modo migliore per fare comicità.
Molto spesso, ascoltandoti traspare una poca indulgenza verso i tuoi lavori passati? Mi chiedevo se nasce da una voglia di elaborarli o se effettivamente c’è un atteggiamento critico nei loro confronti.
No, c’è un atteggiamento critico che è stato a volte anche doloroso.
Comunque, se hai fatto il percorso anche professionale grazie ad alcuni libri e poi quei libri, visti a distanza di tempo, li trovi per alcuni versi profondamente sbagliati, la cosa ti mette in crisi un po’ tutto perché arrivi a chiederti, ma allora chi cazzo sono?
Adesso però non mi fraintendere, io voglio bene ai libri vecchi, per l’amor del cielo. Sono come dei figlioli, che però visti da lontano mi hanno fatto riflettere.
Vedi, io proprio detesto la narrazione vittimistica contemporanea, l’essere, il raccontare di essere una vittima come se questo fosse diventato un valore. È un atteggiamento che non condivido assolutamente. Penso che sia un atteggiamento letale per le nuove generazioni di autori.
Credo che le persone che abbracceranno questa filosofia creativa, si faranno molto male.
Esiste però un aspetto personale che diventa una esperienza condivisa. Il racconto della tua esperienza personale e la sua condivisione diventano un mezzo che aiuta chi ti legge. Senza parlare dei tuoi lavori e spostando altrove lo sguardo, penso, ad esempio, a Remarque e all’esperienza della guerra.
Questo è vero, ma tu stai parlando di Remarque, che era in trincea durante la Prima guerra mondiale. Il problema è che, secondo me, stiamo vivendo in un periodo in cui non si riesce veramente a relativizzare le questioni.
Cioè, un conto è il racconto della Prima guerra mondiale, un conto è avere e raccontare problemi da studente con l’appartamento pagato anche solo in parte dai genitori. Quella è tutta un’altra esperienza di cui non avverto l’utilità di scrivere o leggere.
La mia consolazione è che i libri che ho fatto, anche se non li rifarei, possono essere stati utili a qualcuno. Mi succede spesso che un lettore mi venga a dire grazie, in quel periodo avevo bisogno di leggere quella roba” e quando succede mi fa piacere. Il problema è che io quando lavoro non penso a questo aspetto.
Però quel periodo, che per te è fissato, potrà essere un’esperienza nuova per il lettore che dovesse arrivarci, magari fra dieci anni.
Questo ragionamento è assolutamente giusto. Il problema è che io vivo tutta la questione solo dall’altra parte, solo come esperienza umana mia e dico ok, è morta mia madre. E cosa ho fatto?
Se quello che ho fatto ha un effetto negativo o positivo su altri si tratta di un altro piano su cui però non mi fermo a pensare.
Quando scrivi però hai un lettore a cui ti rivolgi, un libro è esperienza condivisa che è quasi come se non esistesse finché resta su un fronte
Sulla la prima parte sono assolutamente d’accordo sulla seconda, no.
Io ho vissuto i libri che ho fatto in quel modo, cioè come un mezzo per avere un’intimità con chi mi leggeva per tanti anni. Ora meno, lo faccio più per il mio piacere, diciamo che viene dall’idea di fare personaggi che sembrano vivi, ma non è necessario che ci sia qualcun altro a leggerli perché lo siano. Loro sono vivi per me. Poi, se vanno in mano a qualcuno è chiaro che sì, si incastrano tutti i pezzi.
L’interlocutore quando si scrive c’è sempre, anche se immaginario, e questo non significa scrivere per pubblico. Quello è il peggio che si possa fare, quasi quanto farlo solo per sé stessi.
Nella tua esperienza artistica, posto che il fumetto resta il tuo mezzo di comunicazione prediletto, hai anche esplorato altri mezzi come il cinema o i corti. A un certo punto i tuoi corti di Propaganda Live erano un appuntamento fisso molto atteso.
E mi dispiace pure avere smesso. Anche se a pensarci non avevo alternative. Io ho il problema che non sono tanto solido in termini emotivi e alcune cose mi fanno male.
In particolare, è un certo tipo di piccola notorietà a farmi male. Mi fa male perché mi fa perdere la brocca.
Non è che divento uno che si crede un santone, ma mi rendo conto che in quei casi mi si modificano delle robe interne che poi mi levano l’equilibrio. Questo non succede quando sono al tavolo da disegno con i miei fumetti.
È quello il mio mondo, la mia competenza, qualcosa che ho coltivato e sviluppato nel corso di cinquant’anni. Io ho fatto la mia prima tavola a fumetti, anche se era una merda, quando avevo cinque anni. Quando faccio fumetti sono veramente io perché sono nel mio mondo.
Nei video mi si attivano troppe scorciatoie.
Vedi, andare su un palco e insultare un politico che non mi piace, secondo me non mi fa molto onore come persona e si tratta alla fine di una semplificazione scemotta.
Rischi di cadere nella stessa semplificazione che viene utilizzata dall’altra parte.
Sì, ma non solo. Si rischia di cadere nel male del secolo che è la tribalizzazione delle idee, dove le persone reagiscono a un’idea, a un’opinione solo in base alla tribù di appartenenza di chi pronuncia quell’idea.
È diventato tutto polarizzato. Manca la volontà di mettersi a disposizione e alla fine arricchirsi nel confronto. Tutto è sparato a volume altissimo, come nei rapporti sui social.
Quelli sono fatti apposta, cioè io non lo so se tutte le persone che li usano sono coscienti del fatto che i social network hanno dietro un pensiero preciso che poi si trasforma in una ingegnerizzazione precisa.
Queste sono robe che ho iniziato a studiare grazie a Daniele Rielli e al suo libro L’odio e che poi ho approfondito. Sono progettati per creare conflitto, perché funzionano meglio quando l’opinione pubblica si polarizza. La bellezza, ad esempio, non la bellezza in termini fisici ma la bellezza anche artistica, sui social non funziona perché rende solo il conflitto.
Le persone che si arricchiscono con i social, che non sono gli utenti, lo sanno benissimo. Modellano il sistema, gli algoritmi, in modo che il conflitto sia il più alimentato possibile.
Questo mi ricorda il passaggio di Matrix in cui il signor Smith parla con Morpheus e gli dice che gli uomini non sono capaci di stare in Arcadia.
È abbastanza vero. Uno dei primissimi finanziatori di Facebook, quando ancora era neonato, era un grande studioso e amico di René Girard, il filosofo francese che ha teorizzato la tribalizzazione. Lui disse che quello che stava facendo Zuckerberg era esattamente l’applicazione sulla realtà di quel pensiero.
Gli umani hanno sempre bisogno di dividersi in tribù e di individuare un capro espiatorio al quale attribuire tutte le colpe della società per poi sacrificarlo.
Se ci pensi, questo è quello che viene fatto sui social network su base quotidiana.: ogni giorno c’è qualcuno che diventa il simbolo del male.
Lui lo sapeva che era così. Ci ha investito i suoi soldi ed è diventato un multimiliardario.
Nessuna casualità tipo: non volevamo fare una cosa bella che poi è diventata brutta, volevano proprio fare quello che abbiamo oggi e hanno lavorato per farlo.
Quando tocca a una persona pubblica di finire in certi meccanismi, come ci si sente?
Io sogno il momento in cui non esisterà più il concetto di personaggio pubblico. Troppe brutalità verbali vengono passate in cavalleria dietro l’idea che le persone a cui sono dirette siano personaggi pubblici.
E che quindi devono digerire qualunque cosa gli si dica.
Sì, è una grandissima stronzata. Non è che farsi dare dello stronzo sia un lavoro.
Se il mio lavoro non è fare il capro espiatorio, il tuo darmi dello stronzo abbuffo perché te passa così, dovrebbe farti riflettere su che tipo di persona sei.
I personaggi pubblici sono persone come tutti gli altri che magari hanno il cancro al fegato, hanno un lutto, hanno le stesse fragilità che hanno tutte le altre persone. È molto stupido mettersi dalla parte del pubblico dimenticando questo aspetto.
Personalmente ho sofferto abbastanza per alcune robe che mi sono successe, però ti voglio dire che le ho sofferte perché non vivevo, e te lo dico col rischio che qualcuno che legga l’intervista possa specularci per tre anni, perché non vivevo sulle orme del Signore. Non stavo sulla retta via, la mia vita non era giusta.
Non lo era perché non facevo cose abbastanza giuste nella realtà. Quando ho iniziato a farle, cioè a far del bene ad altre persone e fuori dalle telecamere, la mia vita si è aggiustata. Coltivare quei rapporti mi ha dato la forza.
Si tratta di una conversione o è un cambiamento del tuo rapporto con gli altri
Non usiamo il termine conversione perché non si tratta di quello, non si tratta di religione. Ho studiato tanto la Bibbia in questi ultimi anni. Mi piacerebbe, però no, non si tratta di quello.
Quello che è cambiato è che a un certo punto ho iniziato a occuparmi di persone con enormi difficoltà e mi sono innamorato di queste persone, sono diventate i miei amici, sono diventati quelli a cui dedico le mie giornate e questo mi ha fatto mettere nella prospettiva giusta tutte le cazzate del social network, che non sono niente, niente, niente.
Mi dispiace per chi è convinto di fare qualcosa, tipo lotta politica sui social.
In realtà non sono niente. C’è una realtà enorme, soprattutto di persone con enormi disagi e limitarsi ad agire dal proprio salotto, dal proprio telefono è troppo comodo e inutile.
Il paese che hai attorno in questo momento che impressione ti fa?
Se avessi una qualche fiducia in possibilità di cambiamento dell’Italia, soprattutto su alcuni aspetti, potrei anche essere preoccupato, però allo stesso tempo non condivido minimamente la roba del: sono arrivati i fascisti.
È paradossale se ci pensi, che uno possa scrivere che sono arrivati i fascisti in pubblico, con nome e cognome, senza che i fascisti lo vadano a pigliare a casa.
Occorre darsi una calmata.
Le elezioni sono un evento democratico e se ha vinto gente che ti fa schifo ci devi stare, anche perché devi pensare che a quelli che hanno vinto ora per anni hanno fatto schifo quelli che vincevano, quelli che stavano in TV a dire quanto facevano schifo a destra, me compreso.
Voglio dire, uno deve stare attento, con gli occhi aperti sui singoli provvedimenti, sulla roba reale, non sulle battaglie ideologiche.
Ha poco senso parlare del ritorno di Mussolini dopo novant’anni, come sono rincoglioniti quelli che dicono dovrebbe tornare il Duce.
Sono altre le paure che dovremmo avere oggi e per cui occorre vigilare, la Cina, la Russia, la guerra…
E poi c’è da dire che c’è un sacco di roba che ci è stata inculcata.
Io, ad esempio, sono cresciuto con l’idea che il Tricolore, la bandiera del mio paese, fosse la merda assoluta, ma erano tutti modelli di pensiero che mi erano stati passati di default.
Se ci pensi anche l’idea di amare il proprio paese è non necessariamente sbagliata. Questo non significa che ho votato a destra, sia chiaro, però occorre anche guardare criticamente all’isteria continua della sinistra su ogni tema, perché dà un’idea di fragilità che aiuta l’avversario.
Cioè, voglio dire, se conduci una lotta devi tenere la schiena dritta, accettare il gioco democratico e vigilare il più possibile. Soprattutto, occorre che si smetta, come avviene proprio da sinistra salvo alcune eccezioni, di schifare le persone, perché finché viene fatto non ci si può stupire che le persone in difficoltà vadano a cercare altrove la loro necessità di essere rappresentati.
Ogni volta che a destra vincono ci si riduce a: gli italiani sono impazziti. No, non è così. Molti stanno male e le provano tutte, non sono fascisti ma stanno male, non hanno alcuna affezione ideologica, stanno male e basta.
Occorre tornare ad ascoltare un popolo che chiede solo quello e mostrare nei fatti un modello diverso senza autoreferenzialità da salotto.
Grazie per la tua disponibilità, è stato un vero piacere.
Anche per me.
Intervista realizzata il 30/10/2022 a Lucca Comics & Games 2022
Al seguente link anche la video intervista registrata a Lucca (a cura di Giovanni Dacò e Giuseppe Lamola, riprese Lorenzo Gonnelli)
GIPI
Gipi è nato a Pisa e vive a Roma. È uno dei fumettisti contemporanei più importanti a livello internazionale.
Il suo talento gli ha permesso di ricevere riconoscimenti in Italia e all’estero, tra cui spiccano le candidature al Premio Strega, il Premio Goscinny e il Premio Fauve d’Or al Festival International de la bande dessinée d’Angoulême e il Grand Prix de la Critique. I suoi libri, tradotti in tutto il mondo, sono pubblicati in Italia da Coconino Press: Esterno notte, Questa è la stanza, Appunti per una storia di guerra, S., LMVDM – La mia vita disegnata male, Unastoria, La terra dei figli. Quest’ultimo libro ha ispirato il film omonimo per la regia di Claudio Cupellini, prodotto da Indigo nel 2021.
Gipi si è dedicato anche al cinema e alla tv e, dopo aver realizzato cortometraggi e video indipendenti con la sua Santa Maria Video, nel 2011 ha diretto il suo primo lungometraggio, L’ultimo terrestre, prodotto da Fandango, in concorso alla 68a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e, successivamente, Il ragazzo più felice del mondo (Fandango), presentato a Venezia nel 2018.
Da sempre appassionato di giochi ha ideato e disegnato Bruti (Rulez, 2015), gioco di carte in stile medievale fantasy da cui ha tratto ispirazione per la sceneggiatura del libro Aldobrando (Casterman/Coconino Press, 2020), disegnato da Luigi Critone.
Gipi è tornato alla narrazione a fumetti nel 2019 con Momenti straordinari con applausi finti e poi nel 2022 con Barbarone sul pianeta delle scimmie erotomani (Rulez)
Lo Spazio Bianco è una rivista online, amatoriale e indipendente, dedicata a informazione, critica e divulgazione del fumetto, attiva dal 2002. Le ragioni della collaborazione tra Kalporz e Lo Spazio Bianco puoi leggerle qui