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#my2cents
Non so se definirlo “lettering”, ma mi piace e prendo in prestito questa definizione dalle nuvole dei fumetti: ultimamente è scomparso il lettering dalle copertine degli album. Sì, insomma, non ci sono più i nomi degli artisti e i titoli. Oddio, non è proprio così: c’è sempre chi li mette, e soprattutto questa scelta è sempre esistita, però diciamo che è un’opzione sempre di più seguita. Se fosse una filosofia da complottisti potremmo definirla “No Lettering”, ma è solo un titolo ad effetto.
Non so dire quale sia stato l’artista che lo ha fatto per primo, ma basti ricordare – solo per andare negli anni Sessanta – che questa caratteristica accomuna album come “The Velvet Underground & Nico” (1967, che più propriamente, trattandosi di opera d’arte, riproduceva “Andy Warhol” come firma del pittore) e “Abbey Road” (1969) dei Beatles, fino ad arrivare ad “Atom Heart Mother” (1970) e “Obscured by Clouds” (1972) dei Pink Floyd, e naturalmente “The Dark Side Of The Moon” (1973). Tra l’altro l’etichetta della band di Waters, la EMI, così come per i Beatles, fu all’inizio molto disorientata da questa scelta, poiché si aspettava di vedere le classiche “lettere e parole” sulle copertine. Del resto l’idea iniziale di Kosh per “Abbey Road” fu che “non c’era bisogno di scrivere il nome della band sulla copertina…. Erano la band più famosa del mondo”. Quindi i primi tentativi in tal senso prevedevano in ogni caso che il fruitore riconoscesse subito la band (i quattro di Liverpool) o il suo immaginario (Storm Thorgerson aveva iniziato a fare le copertine per i Floyd fin da “A Saucerful of Secrets” del 1968), c’era questo presupposto necessario. Non sarebbe stato possibile farlo per un esordiente, insomma.
Ma torniamo ai giorni nostri: se sfogliamo le cover (utilizzo “cover” come sinonimo di “copertina”) del 2022 non si può non notare che la scelta del “No Lettering” accumuna dischi come “Ants From Up There” dei Black Country, New Road, “Dawn FM” dei Weeknd, “Dragon New Warm Mountain I Believe in You” dei Big Thief, “Sick!” di Earl Sweatshirt, “Pompeii” di Cate Le Bon, “Classic Objects” di Jenny Hval e potrei continuare per un bel po’. Se vogliamo unire l’utile al dilettevole in questi tempi di fine anno, possiamo dare uno sguardo alle copertine che sono in nomination all’Art Vinyl 2022, il premio organizzato da una galleria d’arte londinese che premia le migliori cover musicali e che seguiamo ogni anno da tempo: le cover “pulite” sono tantissime, direi la quasi totalità. C’è pure chi assecondando questo trend, come i Dry Cleaning, hanno inglobato il titolo “Stumpwork” direttamente nell’artwork, facendolo apparire con i peli della saponetta in quella che è già una cover mitica. Come a dire: non stiamo a scriverlo “a macchina”, se lettering deve essere, allora che sia esso stesso l’immagine.
Questa allergia delle copertine alle lettere è una tendenza in atto da tempo, ma io me ne accorgo solo ora; del resto, non mi pare di aver letto articoli in merito. Googlando ho trovato solo un tizio su RYM che ha iniziato la lista degli “Album covers with no words”, ma poco altro. L’unico articolo che commenta il fenomeno è di Cool Accidents del 2020 (“From ‘Abbey Road’ To ‘Future Nostalgia’: A Brief History Of The Wordless Album Cover”) e conclude così: “Le copertine degli album senza parole sono diventate la strada del futuro, nonostante siano nate come deviazioni dalla norma. Gli album non sono più considerati raccolte di canzoni di un artista noto, ma opere concettuali con temi astratti e messaggi importanti”. Probabilmente più che del parere di Cool Accidentes o del mio ci vorrebbe quello degli artisti che seguono questa via, o dei grafici, ma io lancio il sasso (e ci ragiono un po’ su) poi vedremo.
Il motivo più ovvio è prosaico: nella musica liquida le cover sono un qualcosa che è sempre associato a un testo, perché il titolo dell’album e l’artista sono catalogati all’interno del provider di streaming, per cui non potrà mai succedere che l’ascoltatore non possa accedere a quelle informazioni. Se così è, il lettering diventa inutile. È quindi necessario solo sul formato fisico, ma del resto ci sono tecniche ovvie e già in uso da tempo che possono salvare capra e cavoli: prevedere la cover “pulita” in generale, e attaccare un patacchino, come direbbero a Bologna, sulla copertina del vinile o del cd. Un adesivo, insomma, un bollino. E così anche i boomer che acquistano ancora il fisico avranno svelato l’arcano di associare un’immagine a un artista.
Che è un arte, quest’ultima, che invece si saggia sui social: esiste sempre il contatto “esperto musicale” che posta una copertina e dà commenti sull’album ma il malcapitato a cui appare nella sua timeline si chiede: “E chi sono questi?”. La domanda in questo caso è d’obbligo: l’espertone lo ha fatto apposta per verificare chi, tra i suoi contatti, è al suo livello di conoscenza musicale oppure è vittima inconsapevole (nel senso che non ha pensato a questa problematica) del “No Lettering”? Bella domanda.
Quello che possiamo dire è che la funzione della cover è cambiata nel tempo, e il mio amico Folegati mi ha fatto notare che, per certi versi, il senso delle copertine potrebbe essere incarnato, nell’era dello streaming, dalle gif che scorrono sullo schermo nell’ascolto dei brani. Di solito sono frame tratti dai relativi video, e in effetti non sono presenti in tutti i pezzi, però gli artisti più in linea coi tempi costruiscono questi video loop per tutte le canzoni del proprio album indipendentemente dai videoclip del/i singolo/i. Le differenze sono evidenti: innanzitutto trattasi di immagini in movimento e non statiche, e soprattutto sono associate alle singole canzoni e non all’album nel complesso. Ma quest’ultima annotazione potrebbe finanche essere rappresentativa proprio di un tempo in cui sono i brani che contano, e lo si sa. Quello che però credo sia vero è che ci si possa immergere all’interno di questi piccoli video, sognando mentre si ascolta la relativa musica, così come si faceva una volta rimirando le copertinone dei vinili, sdraiati sul letto in attento ascolto.
Del resto circa le copertine è istruttiva la storiella di Noel Gallagher con i suoi figli: “Per i miei figli se una cosa non c’è sullo smartphone non esiste”, ha detto a Buzzmag: “Una volta sono tornato da una riunione con la copertina di un mio nuovo disco. ‘Cos’hai nella busta?’, mi hanno chiesto. Ho risposto che era la copertina del mio disco. ‘Cos’è una copertina?’, mi hanno risposto. ‘La copertina di un cazzo di disco!’, gli ho detto, per poi spiegargli tutto nel dettaglio: ‘Sapete quando andate su iTunes e vedete quella piccola immagine quadrata? Ecco, quella cazzo di piccola foto è una copertina’. E sapete cosa mi hanno risposto? ‘Davvero fai delle riunioni per una cosa del genere?’. ‘Cazzo se le faccio, è costata centomila cazzo di dollari’, gli ho detto. Ma per loro resta solo una foto sul cellulare…”.
(Paolo Bardelli)