Share This Article
Con il loro trentasettesimo album in studio i Guided by Voices confermano che la loro energica e straniante formula di garage pop e alternative punk – un accostamento di termini che non è affatto pleonastico quando si parla di Robert Pollard e soci – continua a risultare ispirata e fascinosa, pur non riuscendo più a rinnovarsi, e, probabilmente, senza che vi sia alcuna intenzione di rivoluzionarla da parte dei suoi creatori.
Sin da quando si sono riuniti nel 2016 i GBV hanno pubblicato una quindicina di LP. Sono cifre che lascerebbero chiunque di stucco se non sapessimo che questa bulimia creativa quasi incontrollabile caratterizza da sempre la band di Robert Pollard, così schietta e umorale, così trascinante e diretta, che accetta la discontinuità come elemento fisiologico che la natura impone a ciascuno di noi, abbracciandola, in un certo qual modo, come forma d’ispirazione essa stessa. È su questa falsariga che si sono sempre mossi i GBV, con una ancor più accesa evidenza negli ultimi sei o sette anni, forti di un momento di pausa – pur breve – che ha permesso loro di raccogliere nuove idee e nuovi stimoli.
La La Land è già dal titolo una dichiarazione d’intenti: la terra dei sogni che da sempre sono gli Stati Uniti, il sogno americano che, nonostante gli ostacoli e le sofferenze, pare finalmente arrivare per i protagonisti dell’omonimo (e bellissimo) film di Damien Chazelle di qualche anno fa, è ancora quella di un tempo? Il solito rapido e frenetico avvicendarsi dei brani, tutti piuttosto brevi, incisivi e incalzanti, è aperto da un biglietto da visita niente affatto banale, “Another Day to Heal”, un pezzo che, pur nella sua scanzonata semplicità, con il verso che è ripetuto più volte, «Give it another day to heal», apre uno squarcio profondo sulla sofferenza e sulle piaghe del tempo che talvolta si curano e talvolta rimangono. Acida, asciutta e prorompente, la traccia che dà il via a La La Land non concede un momento di pausa per rifiatare.
Un riflettere sul tempo che passa, e passa per tutti, persino per Pollard, è rintracciabile in più momenti del disco. La divertita e melodicamente brillante “Released into Dementia” prova a tracciare i confini di un’anima che, come un ricordo ormai perduto, lontano, talvolta compare improvvisamente con contorni sfumati e non ben definita: «I can see you in the night, I can know you in the light, and I can release you», canta Pollard mentre invoca una liberazione che sembra più rivolta a sé stesso che ad altri. Le chitarre distorte lo guidano verso mondi inesplorati e le batterie lo inseguono. Sono le chitarre militaresche e battenti che affollano la fumosa “Instinct Dwelling”, uno dei momenti più ‘90s in un disco così ancorato ai ‘90s.
Ma la nostalgia e il dubbio non finiscono qui. Nella sua sempre leggera e beffarda dimensione, così tipica dei GBV, in La La Land camminano anche spiriti ambigui, sinistri, talvolta amici, talvolta nemici, che combattono e lottano nella mente di Pollard. «Who wants a sad song these days?», si domanda, sconsolato ma sempre un po’ ironico, nella meditabonda “Caution Song”, una delle composizioni più convincenti del gruppo negli ultimi cinque o sei anni, mentre nel gioiellino “Wild Kingdom”, tra effetti vocali convincenti e glitterate chitarre noise pop non così frequenti nella produzione della band, riferisce, sempre con un tono talmente cinico e distaccato che è difficile capire se siamo in presenza di una dichiarazione d’intenti seria o di un depistaggio, che la canzone è «An invitation to suffering / An invitation to suffering for you».
Nella confusione turbolenta, divertente, sfuggente e trionfalmente incontrollabile che è da sempre la carriera – a tratti straordinaria, a tratti molto meno attraente – dei GBV, La La Land non è nulla di nuovo ma neanche nulla di troppo: serve a ricordarci che Pollard e soci non stanno andando da nessuna parte ma che al tempo stesso ci sono e non smettono di gridare che qualcosa da dire ce l’hanno e che sempre l’avranno. È proprio nel suo non voler essere essenziale né sorprendente che La La Land funziona, colpisce e in certi momenti, addirittura, emoziona.
70/100
(Samuele Conficoni)