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Non c’è dubbio: personalmente metterei il video di “Mary” dei Supergrass in una ipotetica classifica dei più inquietanti della storia dei videoclip. Era il 1999, il trio di Oxford aveva a settembre pubblicato il suo terzo album omonimo, che era stato veicolato con un paio di singoli, a maggio “Pumping On Your Stereo” aveva dato fuoco alle polveri e poi la fortunata “Moving” a settembre era uscita in contemporanea con l’album. L’immagine dei Supergrass stava cambiando: all’inizio erano una band il cui video di maggior successo, “Alright” (1994), li vedeva sbarazzini correre su una spiaggia con delle magliette colorate e cantare di essere giovani e di sentirsi molto bene. Insomma, una tipica immagine brit pop, e del resto era proprio il periodo. Già però nel 1997, anno del loro secondo “In It For The Money” e solitamente annotato come anno della morte del brit pop (gli Oasis diventavano definitivamente supponenti con “Be He Now”, i Blur cambiavano strada con “Blur”, moriva Diana e soprattutto arrivava a Downing Street un “primo ministro brit pop” come Tony Blair), i Supergrass si stavano spostando verso un sound più robusto e verso dei video in cui apparivano più cattivi e meno allegri: in “Richard III”, che in effetti li vede all’opera – come sarà poi in “Mary” – in un interno buio e sporco, con della vera elettricità che si sprigiona dalle spine, si lanciavano senza paracadute in un canzone senza soste e il ghigno di Gaz Coombes iniziava a farsi davvero beffardo.
Ma è con “Mary”, novembre del 1999, che l’orrore fa l’entrata trionfale nella carriera di Gaz e soci, con un video che è un concentrato di terrore: già i tre (anzi quattro, al tempo il tastierista Rob Coombes non era ufficialmente nella band) suonano in uno di quelli scantinati in cui i protagonisti dei film slasher sono costretti a scendere e trovano sempre qualche presenza mostruosa a far loro gli onori di casa, anzi “di cantina”, e – parallelamente – si svolgono tre storie. Nella prima una studiosa scopre che il suo laboratorio è infestato e gli oggetti si muovono: particolarmente minacciosi sono i libri ma soprattutto una lampada piuttosto aggressiva. Nella seconda una già disturbante cena familiare tiranneggiata da una mamma inflessibile si trasforma in banchetto mortale dopo che la stessa donna vomita sangue e si materializzano corpi decomposti alla tavola; alla fine un tranquillo bagno viene interrotto da tubi che pulsano sangue e spiriti che spingono la protagonista all’affogamento. Le citazioni cinematografiche si sprecano: il Melody Maker, nel numero del 9 novembre 1999, dichiara: “I Supergrass hanno realizzato il loro “Texas Chainsaw Massacre” mentre una portavoce della band commentò: “Ha più a che fare con Halloween”. A mio parere i rimandi più evidenti sono a “Shining” (per il sangue che cola dalle pareti), “L’esorcista” (per il vomito) e a “Poltegeist” (per gli oggetti che si muovono).
La BBC sentenziò: visione solo dopo delle 21.00, il video era troppo impressionante. MTV invece ci andava a nozze e lo metteva ad ogni ora: “Eravamo consapevoli che non sarebbe apparso sulla TV dei ragazzi, ma pensavamo che dopo lo spartiacque delle 21 sarebbe stato giusto guardarlo”, dichiarò il bassista Mick Quinn a un intervistatore australiano agli inizi del 2000. “Non abbiamo fatto quel video per essere vietato, ma doveva avere un certo valore scioccante”.
I tempi erano giusti: mancava poco più di un mese alla fine del millennio, no? Già la copertina di “Supergrass” era tendente all’horror, con i tre radiografati con i loro scheletri in bella vista. A maggio 1999 i Chemical Brothers avevano ricreato un vero e proprio rave di scheletri in “Hey Boy, Hey Girl”, sul finire del 1998 Stephen King aveva pubblicato “Bag of Bones” edito in Italia nel 1999 col titolo di “Mucchio d’Ossa”, al cinema l’angoscia aveva il volto di “The Blair Witch Project”, insomma i tempi erano in linea con una specie di fine del mondo che i Supergrass visualizzarono così, in una casa normale, mentre fuori tutto scorre come al solito e dentro il soprannaturale impera.
L’aspetto più strano di questa faccenda è che la regista non era per niente specializzata in horror: Sophie Muller infatti era al tempo già affermata (oggigiorno la sua produzione di videoclip è sterminata), ma di video di taglio diverso. Partita negli anni ’80 come regista “ufficiosa” per Sade e Eurythmics, si era un po’ staccata dai suoi due artisti feticcio nel 1993 con Björk (“Venus as a Boy”) e avvicinata al mondo british in senso lato (lei comunque è di Londra) nel 1995 con il video di “Ten Storey Love Song” per gli Stone Roses ma soprattutto quello di “Song 2” per i Blur, ma lavorava anche negli States (suo il brutto video di “So Real” con Jeff Buckley che gira in bici incravattato e anche suo quell’altrettanto poco riconoscibile “Don’t Speak” dei No Doubt che però le fruttò il premio come Best Group Video agli MTV Video Music Awards 1997). Nel nuovo millennio Sophie Muller ha firmato moltissimi video che hanno segnato il nostro immaginario: PJ Harvey che cammina di notte in città in “Good Fortune”, Chris Martin dei Coldplay legato alla sedia in “Trouble”, i Radiohead che emergono dal buio di un parcheggio come fantasmi in “I Might Be Wrong”, Lily Allen nella sua cameretta in “Smile”, e si potrebbe continuare ad libitum. La tipologia di artisti che con cui ha collaborato successivamente, particolarmente pop e forse poco inclini a svolte alla “Mary”, come Beyoncé, Pink, Sophie Ellis-Bextor, Selena Gomez, Shakira, non hanno permesso (salvo errore) video granguignoleschi. Un po’ di inquietudine l’ha trasmessa solo quel triste mietitore (citazione della morte “pulitrice di vetri” con il sangue nello storico “Loser”?) e quell’atmosfera da film di spiriti di “Heart Is a Drum” di Beck, ma è stata poca cosa se confrontata con “Mary”. Forse la risposta nella bravura della Muller in quella prova è allora da ricercarsi nella sua prima esperienza come aiuto-regista, avvenuta nel meraviglioso “In compagnia dei lupi” (1984) di Neil Jordan, la rivisitazione horror della favola di Cappuccetto Rosso in chiave adulta. Evidentemente i rudimenti della paura li aveva imparati lì.
(Paolo Bardelli)