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Oggi, 10 febbraio 2023 sono 20 anni che è uscito il quarto album dei Massive Attack, “100th Window”. Album non del tutto considerato e capito, ma incredibilmente coeso e visionario, paranoico e narcolettico. Un disco su cui è fondamentale ritornare, perché può essere probabilmente considerato anticipatorio di certe forme di autoisolamento e apatia sempre più crescenti, se non altro come forma di rifiuto dell’attuale società.
“Non volevamo ripetere ‘Mezzanine’”
Se sei una band che ha rivoluzionato il suono contemporaneo con il tuo primo album e poi l’hai fatto evolvere nel secondo e virare magnificamente nella terza prova, senza mai ripeterti, allora il quarto disco diventa davvero difficile. E così è andata per i Massive Attack, esplosi nel 1991 con “Blue Lines” e il suo sound ibrido di hip hop, soul e reggae che rimbalzava da Bristol agli States e poi in tutto il mondo, confermatisi nel 1994 con un album come “Protection” che approfondiva il loro lato soul e R&B senza perdere le radici da club e infine posizionatisi in quel limbo tra l’elettronica e il rock scuro quando il millennio stava per scemare, nel 1998, con il doloroso “Mezzanine”. Disco che ebbe una grossa eco e fu accolto come un colpo da maestro nel suo virare in territori cupi e rabbiosi, e che si lasciava dietro di sé il dubbio amletico sul cosa avrebbero potuto ancora fare i Massive Attack. Le responsabilità crescevano dunque sulle spalle di 3D, rimasto praticamente da solo a portare avanti la baracca dopo le divergenze con il membro fondatore Andrew Vowles aka Mushroom (che non aveva amato la svolta “rockeggiante” di “Mezzanine”) e il congedo di paternità di Daddy G. Ma del resto i Massive Attack erano stati fin da subito un’entità liquida, un collettivo in cui in tanti collaboravano e nessuno era, o meglio sembrava, determinante perché le influenze erano talmente disparate che la loro musica sarebbe potuta essere sempre e solo contaminata. 3D avrebbe trovato le collaborazioni giuste anche stavolta, si pensava. E così, infatti, andò, seppure lo ferì (e lo fece incazzare) chi definì poi “100th Window” come il suo “primo album solista”: “Se fosse così avrei messo la mia faccia sulla copertina del cd e sui poster”, disse in un’intervista a The Big Issue nel febbraio 2003. In realtà 3D non fece tutto da solo, ma si fece aiutare, prima dai Lupin Howl e poi da Neil Davidge, ma andiamo con ordine.
Le collaborazioni: dalle sessions pazze con i Lupin Howl, costola degli Spiritualized, a Sinéad O’Connor
3D entra in studio di registrazione nei primi mesi del 2000: in giro si sente l’ansia di captare “il suono del nuovo millennio” e ciò è dannatamente complicato. I Radiohead ci sbattono la testa nelle incisioni già dall’anno prima: quell’obiettivo (inconscio) porta a galla, più di altre volte, le differenze artistiche tra i membri della band di Oxford che si ricompone solo a fatica in quel “Kid A” che è un prisma dalle diverse sfaccettature. Forse non a caso anche “Kid A” è la rappresentazione delle ansie di un singolo, Thom Yorke, più che di una band: 3D si trova nella stessa situazione. Ma all’inizio cerca una via collettiva: chiama i Lupin Howl, una band formata da tre membri fuoriusciti dagli Spiritualized, per suonare delle lunghe e interminabili sessions e trovare l’ispirazione. I Lupin Howl sono una band piuttosto ordinaria, il loro album che uscirà nel 2001, “The Carnivorous Lunar Activities of…”, li vede come una specie di Verve dal suono più evoluto ma pur sempre ancorato ai Sixties. Nulla di che, a dire il vero. Pitchfork chiude così la recensione: “I fan degli Spiritualized potrebbero apprezzare questo disco e potrebbero essere interessati a dargli un ascolto, ma pochi altri saranno attratti”. Non si vede in effetti come una band standard come i Lupin Howl potesse aiutare l’evoluzione dei Massive Attack sulla soglia del terzo millennio. Trascorrono insieme 18 mesi a suonare in una sala prove al Ridge Farm Studio nel Surrey ma 3D non è per niente contento di quelle 80 ore di registrazioni che “suonavano troppo simili a Mezzanine”. Le butta tutte al macero e riparte da zero. Sarebbe molto interessante poter ascoltare quelle incisioni per capire se davvero nulla di quell’ottica è confluita in “100th Window”, ma in realtà un’idea ce la si può fare perché i Massive Attack/Lupin Howl resero invero disponibile un singolo da quelle sessions: “Nature Of Threat” è stato pubblicato come singolo solo su Internet, scaricabile in mp3 direttamente dal sito ufficiale (diventando così il primo contenuto dei M.A. a essere distribuito in questo modo) l’8 novembre 2000. È in effetti una canzone che va dalle parti di “Mezzanine”, con loop effettistici ridondanti (lontani dalla pulizia stilistica asettica di “100th Window”) ed esplosioni potenti di basso (non presenti nella dinamica piatta dell’album del 2003). Non è male, intendiamoci, ma probabilmente non avrebbe significato una nuova via per i M.A.
A guardar bene, però, 3D non è proprio solo solo: con lui c’è un altro produttore che lo aiuta, Neil Davidge. Davidge era il “produttore dei DNA”, quello che aveva preso due ragazzetti inglesi che avevano avuto la brillante idea nel 1990 di remixare “Tom’s Diner” di Suzanne Vega e li aveva un po’ inquadrati per poter arrivare a far uscire quantomeno un album completo (ci riusciranno nel 1992 con “Taste This“), e aveva già “messo insieme i pezzi” in “Mezzanine” quando i membri dei Massive lavoravano da soli e poi lui univa le idee di ciascuno. Anche questa volta è il produttore giusto al momento giusto, la persona con cui reindirizzare un lavoro in cui si è ripartiti da zero: amante di Brian Eno, Prodigy e Radiohead, Davidge diventa per un breve periodo il “secondo” Massive Attack, nell’attesa che torni Daddy G (che tornerà poi davvero nel tour di “100th Windows”). In effetti nei racconti più tecnici sul making of del disco si capisce come è proprio Davidge la scintilla della creatività, perché crea gli effetti e i loop sopra i quali 3D tesse le trame delle canzoni, in un processo molto veloce: un lavoro lungo 18 mesi era stato buttato via, e in due giorni Del Naja e Davidge scrivevano e registravano brani come “Future Proof” e “Special Cases”! Come se tutte le prove precedenti con i Lupin Howl si fossero liofilizzate e concentrate nella testa di Davidge e 3D e aspettassero solo di uscire, così, di getto.
Ma le collaborazioni non finiscono qui: oltre all’immancabile Horace Andy, a cui vengono riservati un paio di brani, c’è anche il cameo di Damon Albarn, nascosto nei credit sotto il moniker di 2D che usa coi Gorillaz, in “Small Time Shot Away”. Ma non affannatevi a cercarlo: la sua voce è trasformata praticamente in un effetto, un rumore di fondo, in una suggestione. Decisiva è invece la voce femminile principale (che i Massive Attack cambiavano di album in album), questa volta incarnata da Sinéad O’Connor. La cantante irlandese era stata già lì lì per essere la chanteuse in “Protection”: al tempo, nel 1993, erano state contattate diverse cantanti per sostituire Shara Nelson, tra cui la soul singer Aaron Neville, Siouxsie (!) e proprio Sinead O’Connor. Ma erano altri tempi, in cui i Massive Attack erano più ondivaghi circa le voci femminili e si permettevano di pubblicare il seguente annuncio su NME: “Female vocalist wanted for internationally acclaimed pop band. Influences include Aretha Franklin and Tracey Chapman”. Ora 3D è più conscio di quello che vuole, e la voce lineare ma intensa e rabbiosa della O’Connor è un elemento cardine per il suono monocorde e monotematico di “100th Window”. Sinéad O’Connor è apparentemente in una fase pacificata della sua carriera, essendo in procinto di pubblicare un album di traditionals irlandesi (“Sean-Nós Nua“, uscito a ottobre 2002), ma poi non tanto visto che prima partirà in tour con i Massive Attack ad aprile 2003 e dopo quattro date si ritirerà per problemi di salute affermando di non voler essere più considerata una celebrità.
Nel 100th Window Tour i Massive Attack collaborarono con United Visual Artist: lo schermo dietro al palco proiettava i numeri della seconda guerra del Golfo, aggiornate in lingua locale sulla base di media (giornali, radio, ecc.) del Paese dove si svolgeva il concerto. Del Naja si schierò apertamente contro quella guerra, assieme a Damon Albarn.
La tecno-paranoia e la fragilità umana
“Poche settimane fa sono scappato da una proiezione di Matrix dopo 20 minuti perché ho improvvisamente creduto che la donna di fronte a me nascondesse una bomba dentro il cappotto. Ho pensato ‘È una fottuta suicida cecena!‘, capite cosa intendo? Morivo dalla voglia di vedere quel film da mesi, cazzo, ed ecco quanto sono paranoico”, dichiara 3D nell’agosto 2003 all’Irish Times. Ecco una delle chiavi di lettura di “100th Window”: la paranoia. Dapprima nata a seguito dell’11 settembre (che ha cambiato l’humus dell’album, a detta di 3D), e poi declinata in salsa tecnologica. La “100esima finestra” infatti è un bug, è quella che non risponde ai comandi (ricordate Windows 95?) quando magari prendi un virus che ti fa aprire automaticamente un sacco di finestre e il computer non risponde più ai tuoi comandi. “Descrive una falla nella sicurezza dei computer. La centesima finestra è quella che non si chiude. È quella su cui non hai un vero controllo”. Ma non c’è solo l’interpretazione tecnologica, c’è anche quella più concreta: “L’idea [è] che, per quanto si possa stare attenti, per quanti dispositivi di sicurezza si abbiano alle finestre, ce ne sarà sempre una non protetta”, ha spiegato Del Naja al tempo sul sito ufficiale dei Massive Attack. “Tutti possono e sapranno tutto di voi e non ci sarà più nessun posto dove nascondersi”. È la ricostruzione di un mondo distopico (in anticipo sui tempi, no?) in cui la privacy è fondamentale ma che è violata. L’altro tema che viene rappresentato plasticamente in copertina è invece la fragilità: il protagonista della cover è un manichino di vetro in forma umana che va in frantumi, metafora della difficoltà di vivere in un mondo più grande di noi che ci può opprimere e, alla fine, farci andare in mille pezzi. Così Del Naja ha descritto il lavoro: “All’epoca avevo parlato con l’artista Marc Quinn di realizzare opere con il vetro e la luce rifrangente. Nick [Knight] aveva sparato proiettili contro dei fiori e li aveva ripresi al rallentatore. Vetro e proiettili sembravano un buon mix, così abbiamo creato 10 figure, ognuna alta un metro e mezzo, che poi abbiamo fatto esplodere. Le figure sono state realizzate da un soffiatore di vetro di Brixton: è stato il suo ultimo lavoro e poi è andato in pensione! Si trattava di una copertina ambiziosa ed elaborata, che oggi le case discografiche non potrebbero permettersi di fare. È stata realizzata pensando alla copertina dell’album in vinile” (The Guardian).
Cloroformio e narcolessia
Ma tutto quello che abbiamo raccontato fino ad ora è solo il contorno, manca ancora la descrizione della musica. Ed è quella la vera protagonista di “100th Window”: notturna, extradimensionale, narcolettica. È come un sogno malato indotto dal cloroformio (“It’s my favourite chloroform”, canta in “Small Time Shot Away”), un mondo che nasce dal nulla in una fase di dormiveglia in cui vagare insensibili e in cui non si sente neppure più dolore alle ferite, come il verso di attacco di “Antistar”:
Can you lick my wounds please?
Can you make it numb?
È un non-luogo dove autoisolarsi, dove non affrontare le difficoltà del vivere, dove autoannullarsi in una apatia assolutoria. Le canzoni si sviluppano una dopo l’altra e confondono l’ascoltatore che non sa più distinguerle perché il mondo visto dalla “100esima finestra” è una specie di infinito perturbante, una morte apparente, una promessa mancata di aldilà. Tutto sfuma e tutto si confonde, e svanisce come nel finale di “Name Taken” (“Fade away / Fade Away”): si smaterializzano le cicatrici (“Where’s the scars?”), i volti si liquefanno (“Faces may fade away”).
La voce della O’Connor è indolente, semplice e ipnotica, Horace Andy non è stranamente sopra le righe e canta quadrato, i brani si snodano senza ritornelli (come fecero i Radiohead in “Kid A“) e attraverso un’elettronica in punta di piedi, non invasiva, mai fragorosa. Anche le chitarre elettriche sono trattenute con la briglia (a fatica si riesce a capire che la parte mediana di “Future Proof” è un assolo furioso di chitarra elettrica di Angelo Bruschini riequalizzato per sembrare una sensazione lontana di assolo), e i cantati di Del Naja sono sempre sussurrati, come un pensiero nella mente. I violini e gli archi in generale si appoggiano spesso su note diminuite di un quarto di semitono, arabeggianti, il che conferisce ai brani quella sensazione di pericolo imminente che li caratterizza.
La semplificazione stilistica di un’elettronica essenziale fu al tempo accolta con un po’ di dubbi: alcuni sottolinearono come i suoni usati dai Massive Attack in “100th Window” fossero “fuori tempo massimo”, poco coraggiosi, poco innovatori. Probabilmente è vero, sono sonorità che potevano essere riprodotte ed utilizzate anche qualche anno prima del 2003 ma questa annotazione – a distanza di tempo – è il vero punto di forza dell’album: lo rende non databile, di classe, al di là delle mode contingenti. Questo fa di lui “un classico”? Forse. Ma probabilmente è più onesto definirlo “un classico incompiuto”: mancando qualche scatto di coraggio e di sperimentazione, non lo si può definire un capolavoro. È un luogo straniante dove rifugiarsi, più che un album.
Personalmente amo alla follia mettere su “100th Window” di notte, finestra aperta, le luci della città che si riverberano assieme ai rumori sordi della metropoli, oppure guidando, al buio, occhi sui fari puntati a terra e pensieri che girano inquieti come fantasmi dispettosi. Perché è vero che sono più belli i primi tre album dei Massive Attack, ma è “100th Window” che ho ascoltato di più in questi ultimi 20 anni. Perché ho avuto spesso bisogno di riassaporare questo suo essere impalpabile, di cercare di mettermi in contatto con la sua essenza sfuggente, di percepirne il soffio.
Sbatti il mostro in prima pagina
Il 2003 però non fu un bell’anno per Del Naja: due settimane dopo l’uscita del disco fu arrestato per possesso di materiale pedopornografico. I tabloid spararono la notizia e la sua immagine pubblica ne ebbe un grosso contraccolpo. Le accuse furono rapidamente ritirate per mancanza di prove, ma per diverso tempo anche solo il testo di “A Prayer For England”, che parla di violenza contro i bambini, fu visto malamente (“Let not another child be slain”). Chissà cosa succederebbe oggi, al tempo delle sentenze immediate e globalizzate da social, chissà se 3D riuscirebbe a saltarne fuori così come, seppure a fatica, è riuscito a fare allora (oggi è una storia piuttosto dimenticata, e per fortuna visto che fu un errore giudiziario).
Del Naja la superò partendo subito in tour: qui in Italia venne il 5 giugno all’Arena di Verona (con Dot Allison al posto di Sinead O’Connor) e fu un concerto in stile “100th Window”: ammaliante, catatonico e lievemente algido. Era la prima volta che assistevo a una loro esibizione e da allora li ho rivisti più volte dal vivo, e hanno sempre migliorato giocando molto di più sull’impatto che sull’elemento psichico. Ma quando rimetto su “100th Window” ritorno sempre a quella sensazione inquietante ma totalizzante di essere in contatto mentale con la loro musica. E, devo ammettere, non ci sono molti album che mi fanno questo effetto.
(Paolo Bardelli)