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Quarto disco solista per Gaz Coombes, leader dei Supergrass che qui a Kalporz abbiamo atteso invano la scorsa estate per il reunion tour. Diciamo subito che con “Turn The Car Around” si guadagna il nostro perdono, attestandosi sui livelli di “World’s Strongest Man” e (almeno per il sottoscritto) poco sotto a “Matador”. Laddove quegli album prodotti negli anni dieci apparivano sperimentali e elettronici, il Gaz di oggi mette a punto un canzoniere di grande respiro, sognante ma non meno avventuroso. Influenzato dal David Bowie di marca glam, Curtis Mayfield, Paul Weller e – perchè no – gli ultimi Arctic Monkeys. Magari fuori tempo massimo?
Il nostro sembra aver preso definitivamente la via della classicità e veste i nove brani dei migliori abiti possibili grazie alla collaborazione in studio con Ian Davenport (Band Of Skulls, Slowdive). “Overnight Trains” apre i giochi come se “Starman” fosse finita nelle mani dei Beach Boys, prima dell’ingresso di una chitarra potente e acida con cui torniamo sulla Terra; “Don’t Say It’s Over” è una ballad soul dagli arrangiamenti barocchi in cui la voce di Coombes regala falsetti e contrappunti degni dei maestri Otis Redding e Lee Fields. “Feel Loop (Lizard Dream)” suona come un blues rivisto dai Radiohead e da gustare in cuffia per la quantità di particolari in un crescendo irresistibile.
Ho già citato nella vecchia presentazione “Long Live The Strange”: ruffiana in senso buono (è il pezzo più radiofonico e immediato), perciò sposterei l’attenzione su un’altra doppietta eclatante, sul quando l’uno completa l’altro – Vialli e Mancini, Morrissey e Marr, Bud Spencer e Terence Hill. La prima è “Sonny The Strong”, racconto vibrante della tormentata esistenza del pugile Randolph Turpin, campione del mondo nel secondo dopoguerra e morto suicida nel 1966: “Now at the top, life was never the same/When all they could hear was the call of his name/He wanted love but it lost him all of the time/Well, it’s hard to find when your love lies bleeding”; viene di rimando “Not The Only Things”, che guidata da acustica inserisce elementi trip-hop e world davvero affascinanti, un’esplorazione che speriamo preluda a nuovi orizzonti artistici (“I’m not used to this/Find the key/What are you waiting for/Time to go explore/It’s all there”). Una canzone bella da matti.
La title track e “This Love” sono gli episodi dell’album in cui sposare l’opinione del carissimo Bardelli – storia triste: il nuovo Gaz Coombes mi ha ricordato i Keane e gli Starsailor. Il pianoforte è quello! – mentre “Dance On” non sarebbe stata possibile senza i Beatles, anche se la collocherei anello mancante tra un “True Meanings” (di Paul Weller, 2018) o “Soft Will” (degli Smith Westerns, 2013). Al netto di un blocco di tracce più deboli, Gaz Coombes resta uno dei migliori cantautori e arrangiatori della vecchia scuola britannica.
76/100
(Matteo Maioli)