#My2Cents
A dicembre, a un certo punto prendo l’iniziativa abbastanza
nineties di
regalare musica come oggetto fisico. Proprio come oggetto che viene da un qualche negozio fisico e nel formato, diciamo, meno figo. Lo penso e sono già davanti a un posto che da negozio di musica “puro” ha poi sforato molto su altre robe ma, sebbene meno sul pezzo di altri, sempre negozio di dischi è.
Insomma, entro e gli chiedo i
Kokoroko. O meglio, specifichiamo: vado a chiedergli i Kokoroko con il tono sicuro con cui negli anni novanta avrei pronunciato la parola “Jamiroquai”. Neanche “Brand New Heavies”, proprio Jamiroquai. E lì, sbam!
Ora qui andrebbe fatto il necessario “passo indietro” perché tra le mille cose che rendono diverso il mondo di oggi da quello (assai imperfetto) degli anni novanta c’è che negli anni novanta si compravano i dischi. Quindi tutto quel che segue non può prescindere dal dato, banale, che in un posto dove circolavano migliaia di titoli, ora ce n’è infinitamente meno. Ma per quel che ne so, il disco in questione (
“Could We Be More”) è a cavallo tra jazz e pop (anche un filo piacione), se n’è un po’ parlato e quindi tenderei a metterlo in un’area certo non mainstream ma di poco sotto. Quel che poi succede in quel negozio, di per sé, non è nulla di nuovo. Rimanda al noto discorso per cui si vive in una bolla dove tutti sanno chi è
Sudan Archives, dove nessuno vota la “destra destra”, dove il basket è seguitissimo e dove la moda del “piuttosto che” disgiuntivo si è fortunatamente estinta. E dove, aggiungerei, “Striscia la Notizia” è finita con l’edizione ’96/’97. Se la questione non è di per sé angosciante, a preoccuparmi sono allora i vari corollari. Per esempio, il privilegio di avere tutte le varie scorciatoie che mi collegano in modo automatico con le cose e le persone che mi piacciono, alla fine mi porta ad avere una visione limitata oltre ogni aspettativa. Visione e consapevolezza limitate, non tanto di quel che è la musica che c’è in giro ma sicuramente di come le persone l’approcciano. Quindi non sono più sicuro che il problema sia
lui che mi chiede se “Kokoroko” è un rapper o l’altro che indica un’altra pista da seguire nelle indagini (
“sei sicuro che non sia un videogioco?”). Il problema potrei seriamente essere io che con il mio tono fuori sync (che andrebbe bene se chiedessi la tachipirina in farmacia)
mi muovo in una realtà che evidentemente non esiste. Io che m’illudo di avere una visione mediamente larga delle cose, probabilmente sto guardando sempre dalla stessa parte. Va così con i Kokoroko ma chi mi dice che non possa andare ugualmente con i Fontaines D.C.? E con Little Simz? Ancora peggio, mi sa. Sono nomi che lì dentro risuonano come su questa pagina potrebbe risuonare la parola “Lazza”. Le distanze credo si siano fatte siderali.
Non so esattamente in quali termini ma credo che sia sensato buttare uno sguardo anche su quel che è percepito come di là da un fossato. Trovo che sia importante, non tanto per distinguere cosa ci piace e cosa no (quello è facile) ma più per incrementare qualche consapevolezza. E di conseguenza per ridefinire il valore, ricalibrare il credito e l’affetto da dare alle cose belle e a chi le fa. Per esempio ho avuto uno sferzante,
gelido bagno di realtà quando per due giorni ho visto il mio quartiere in discreta paralisi per il
doppio sold out di Ultimo. Credo che una delle conseguenze di tutto il tema sia il modo in cui approcciamo quel che sentiamo nostro, dove l’accezione di “nostro” è “dato per scontato” non “da tenere stretto”.
Per esempio, prima di dire che una band di ventenni/venticinquenni al secondo o terzo disco sia già bollita mi chiederei perché facciamo lo switch da “giovani promesse” a “soliti stronzi” sempre così in fretta. Forse ci manca una visione ampia su quel che succede, che è quello che poi ci farebbe tornare a identificarci un po’ più con quel che ascoltiamo. Lo facciamo anche in politica quando di un esponente con una testa decente diciamo che ci ha già stufati ancor prima che esca dal perimetro di base. Sia chiaro, se potessi, vorrei avere 16 anni proprio nel 2023 perché qui avrei strumenti e risorse che nella mia adolescenza non si potevano concepire. Però con un simile atteggiamento i Faith No More manco sarebbero arrivati alla fase di Mike Patton! Insomma, qui è tutto bello e facile ma a volte sembra che in un sistema di connessioni e comunicazioni straordinariamente efficienti e mirate, le parti non comunichino. E si ignorano come solo i sistemi autonomi e autosufficienti riescono a fare. Penso che per parecchi adolescenti sia stato difficile ignorare i
Megadeth che chiacchieravano con i
Massive Attack e con la
Maugeri, un pomeriggio qualsiasi del ’95, in diretta su
Videomusic. Prima di farsi una qualche idea (sugli uni, sugli altri, sul cappuccino che bevevano insieme), quegli adolescenti ci avevano piacevolmente sbattuto contro. Contro tutto il multiforme contesto, intendo. Ed è un esempio tra centinaia di pomeriggi o sere o mattine di quel tenore. È curioso come quella passi per essere stata una fase in cui musicalmente si era molto distanti (in effetti, schierati lo eravamo) a fronte di un oggi in cui tutto sembrerebbe incontrarsi e riconoscersi con grandissima facilità. Rispetto al presente, quella non può essere raccontata come un’età dell’oro ma consideriamo che
nella personalizzazione spinta diventa più facile ignorare tutto e vantarsi di quel che si ignora. E quel che mi suona peggio è che diventa plausibile trattare con un simile distacco sia ciò che si ignora, sia ciò che riteniamo ci appartenga.