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Bob Dylan —— The Bootleg Series Vol. 17: Fragments –
Time Out of Mind Sessions (1996-1997)
La 17° uscita della Bootleg Series di Bob Dylan indaga la genesi del cupo capolavoro che è Time Out of Mind, l’album prodotto da Daniel Lanois che nel 1997 diede inizio a una nuova fase della carriera del cantautore. Oltre a un nuovo mix dell’LP originale effettuato da Michael H. Brauer, il box presenta versioni alternative e outtakes incisi in studio e alcune performance dal vivo tenutesi tra 1998 e 2001, disseminando dietro di sé molte perle e risultando esauriente e incisivo.
Della genesi di Time Out of Mind si è scritto molto e la sua storia è nota: Bob Dylan non pubblicava un disco con brani scritti da lui dai tempi di Under the Red Sky, che era stato distribuito nel 1990 e che seguiva l’eccezionale Oh Mercy (1989) prodotto da Daniel Lanois, apprezzatissimo da critica e pubblico. Dopo aver dato alle stampe Good as I Been to You e World Gone Wrong, due splendidi album contenenti traditionals e brani altrui tutti indissolubilmente legati al folk, al blues e al gospel, con echi di Blind Willie McTell e della Anthology of Folk Music di Harry Smith, di Mississippi John Hurt e di Stephen Foster, e mentre continuava il suo “tour senza fine” in tutto il globo, ecco che nel 1996, dopo una lunga pausa, Dylan tornava a scrivere. Aveva 55 anni e stava per inaugurare una nuova fase della sua straordinaria carriera. Legge i nuovi testi proprio a quel Daniel Lanois del quale aveva incrociato i passi poco meno di dieci anni prima. Questo resta a bocca aperta e i due decidono di mettersi al lavoro.
Nell’estate e nell’autunno del ‘96, con al suo fianco di nuovo Lanois e un affiatato gruppo di musicisti, Bob Dylan registra alcuni brani presso a Oxnard, California, dove, a giudicare da quanto scrive il sito Bjorner, il più accurato database di informazioni sul cantautore, Bob avrebbe lavorato anche a “Things Have Changed”, composizione che sarebbe stata pubblicata solo qualche anno dopo e che gli sarebbe valsa Golden Globe e Oscar. È nel gennaio del 1997, tuttavia, che prende davvero forma quello che sarebbe divenuto Time Out of Mind. Principalmente per sua richiesta, cui Lanois acconsente, Dylan fa spostare la “base operativa” dalla California al Criteria Studio di Miami per iniziare le registrazioni con una band composta da musicisti di Nashville, da componenti della tour band di Dylan e da qualche conoscente suo e di Lanois.
Proprio da quei mesi frenetici e ancora confusionari per quanto concerne la direzione che le registrazioni avrebbero preso inizia a muovere i suoi passi il Bootleg Series 17, il cui progetto è molto chiaro sin dal titolo: l’obiettivo è quello di offrirci tutte le sfumature esistenti dei brani composti per Time Out of Mind e di presentarci ciò con un’organizzazione chiara e coerente, che può essere apprezzata sia dai dylanologi più accaniti e dagli accademici sia dall’ascoltatore comune. Il Disco 1 contiene un nuovo mix di Time Out of Mind effettuato da Michael H. Brauer lo scorso anno in occasione del venticinquesimo compleanno dall’uscita del disco. Ciò rappresenta una novità quasi assoluta per l’apprezzatissima Bootleg Series, ampio gruppo di pubblicazioni d’archivio fondamentali per comprendere meglio l’opera del cantautore e iniziata nel lontano 1991. Operazioni solo in parte simili avevano interessato il Bootleg Series Vol. 10 – Another Self Portrait, uscito nel 2013, che presentava al suo interno anche una versione rimasterizzata – ma non remixata – di Self Portrait e un ampio numero di take privati degli overdub coi quali erano stati pubblicati originariamente, e il Bootleg Series Vol. 16 – Springtime in New York, uscito nel 2021, che conteneva anch’esso alcuni brani incisi da Dylan nei mid-‘80s remixati o privati di alcuni overdub.
Il Disco 2 e il Disco 3, forse i più appetitosi per gli appassionati e, soprattutto, per i filologi, danno ampio spazio, come sempre avviene in questi box set d’archivio, a take alternativi di brani già pubblicati e ad outtakes – che possono anche essere canzoni tradizionali o cover, come nel caso, qui, del classico “The Water Is Wide” – incisi nel corso delle medesime sessions. Il Disco 4 raccoglie una serie di performance live registrate tra 1998 e 2001, particolarmente trascinanti e solide, dei brani pensati per Time Out of Mind: si tratta di dieci degli undici pezzi in esso confluiti, con due esecuzioni di “Can’t Wait” e con la presenza di “Mississippi”, brano che sarebbe stato registrato nuovamente qualche anno dopo e che sarebbe finito dentro “Love and Theft” (2001). Il Disco 5, infine, contiene materiale già pubblicato in passato: esso raduna take alternativi, outtakes e brani live che erano stati inclusi in singoli o nel Bootleg Series Vol. 8 – Tell Tale Signs (2008).
Time Out of Mind, dicevamo, ha avuto una genesi oscura e complicata, tangibile anche solo analizzando il risultato finale. Il box set riesce nell’intento di presentarci la sua evoluzione passo dopo passo senza ridurne la carica misteriosa. Tutto ebbe inizio in California in un luogo ribattezzato da Lanois stesso Teatro: Dylan, il fidato bassista Tony Garnier e il batterista Tony Mangurian accompagnano Dylan in un percorso che sembra un’evocazione di spiriti. Ascoltano, per scelta di Dylan, Charley Patton. Anche Lanois è tra i musicisti e suona chitarra e organo. I quattro danno vita a take secchi e incisivi sui quali si impone, come un’ombra inquietante che si staglia dietro di loro, l’atmosfera creata dalle scelte musicali e dai testi dei brani stessi. I due take work-in-progress di “Dreamin’ of You”, che pochi mesi dopo sarebbe evoluta in “Standing in the Doorway”, una “Mississippi” glaciale, una minimalista e toccante “Red River Shore” e una “Can’t Wait” frenetica e asfissiante dimostrano come Dylan iniziasse ad avere una sempre più profonda dimestichezza coi brani.
Sempre in quell’occasione, inoltre, viene registrato il traditional “The Water Is Wide”. Il cantautore l’aveva eseguito dal vivo già in passato, sia durante la Rolling Thunder Revue I, nel 1975, sia nelle prime fasi del suo Never Ending Tour, nel 1989: quella qui inclusa è una versione commovente che ci ricorda una volta di più che tutto ciò che passa tra le mani di Dylan, anche brani altrui e tradizionali, diventa qualcosa di estremamente originale e di profondamente dylaniano. L’atmosfera del cosiddetto Teatro sembra funzionare, ma ben presto Dylan mostra una certa insofferenza per il luogo, forse perché troppo vicino a casa: le sessioni riprendono all’inizio del ’97 ai Criteria Studio di Miami.
È soprattutto qui a Miami, in base a quel che si sa, che gli screzi tra Dylan e Lanois cominciarono a farsi frequenti: nel corso delle registrazioni una frustrazione diffusa investì Dylan, che forse già allora si convinse a non farsi mai più produrre da qualcuno di diverso da sé. La cosa, in effetti, si è puntualmente verificata, se si escludono gli interventi non minimi di Blake Mills in Rough and Rowdy Ways: dal 2001 in avanti, infatti, Dylan stesso, con lo pseudonimo di Jack Frost, sarebbe stato il produttore di tutti i suoi album in studio, con risultati eccezionali. Nel ’96-’97, però, al timone del sound, con una certa influenza anche sulla scelta dei musicisti in studio e degli strumenti da utilizzare, c’era un certo Lanois, con idee in testa ben precise e un chiaro percorso per realizzarle. Idee che, benché il prodotto finale risulti straordinario, pare che non resero del tutto soddisfatto Dylan.
Nonostante le tensioni, l’amalgama tra Dylan, Lanois e i musicisti è palpabile ed è profondamente soddisfacente ascoltare musicisti eccelsi come Jim Dickinson, Bucky Baxter, Robert Britt e David Kemper muoversi come fantasmi tra le montagne russe melodiche, liriche e ritmiche dei brani e adattarsi alla loro forma mutevole: talvolta ne assecondando la corrente, talvolta provano a portarli in una direzione differente da quella cui sembrava fossero destinati. Si pensi al contrasto, per esempio, tra la prima “Dreamin’ of You”, in una tonalità maggiore, caratterizzata da un’euforia disperata ma variopinta, e la sua seconda forma, dominata da una tonalità minore la cui oscurità sembra propagarsi ovunque man mano che il pezzo avanza. «I’ll eat when I’m hungry, drink when I’m dry, and live my life on the square», canta Dylan con freddezza e cinismo: questo pugno di versi sarebbe confluito in “Standing in the Doorway”, meccanismo che evidenzia quale tipologia di progettualità Dylan stesse applicando nel corso di queste sessioni. Il senso di smarrimento che caratterizza questi due brani assume rapidamente le forme di un dramma collettivo, una prigione della mente da cui l’io lirico non riesce più a uscire.
È senza dubbio la malattia dell’amore uno dei fils rouges di Time Out of Mind, come programmaticamente proclama la composizione che apre il disco, “Love Sick”, pilastro della maggior parte dei concerti di Dylan qualche anno fa. Una meravigliosa versione alternativa del brano è presente sul Disco 2, in tutta la sua violenta e disperata vitalità, mentre il nuovo mix del take incluso nell’LP originale avvicina l’ascoltatore ai musicisti in studio, nel calore di una stanza poco illuminata, mentre ogni singola parola del testo è acuminata e affilata e resta appiccicata ai vestiti. «Sometimes the silence can be like thunder», canta Dylan, la cui voce ora in primo piano e non più sommersa nella palude tenebrosa creata da Lanois, e che anzi ora si staglia sulle preziose orme disseminate dagli strumenti come quasi a guidarli, a indicare loro quale sentiero debbano seguire. Abitata da elementi soprannaturali è anche il take alternativo, sempre nel Disco 2, di “Cold Irons Bound”, con alcuni versi particolarmente riusciti ed evocativi, come, per esempio, quello che contiene l’immagine delle «clouds of blood», che paiono risaltare con ancora più potenza. Rilevanti sono anche le giravolte ipnotiche dei take alternativi di “‘Til I Fell in Love with You”, evoluzione e perfezionamento della seminale “Marchin’ to the City”, con il suo sgangherato avanzare entro i territori del blues e del gospel insieme, ma a tratti addirittura del soul, che evidenzia la capacità sincretistica di Dylan di coniugare, come al solito, tante fonti diverse, musicali e liriche, in un unico orizzonte coerente.
Comprendere il modo in cui Dylan lavora sui suoi brani è uno degli scopi principali della Bootleg Series. Molte risposte ci arrivano dai take alternativi di “Not Dark Yet” e dalla sua forma finale, quella inserita nell’album, tenendo sempre presente che in questo tragitto è intervenuta quasi certamente anche la mano di Lanois. L’apollineo e il dionisiaco si confrontano: quelle due anime che secondo Nietzsche permeavano la forma mentis del mondo greco antico, le due pulsioni perennemente in conflitto tra loro che per lui rappresentavano l’essenza stessa di tutta la produzione teatrale ateniese classica, la catarsi dopo il terrore, quella spinta verso il sublime che il pathei mathos sofocleo e dell’arte tragica in generale incarna nonostante la sua evidente e necessaria applicazione al contesto terreno e umano della polis, tutto questo sembra aleggiare come un enigma in fieri in tutti i brani di queste sessioni. La lavorazione che sta dietro a “Not Dark Yet” è, in questo senso, particolarmente esemplare.
Il brano inizialmente nuota in un brodo primordiale che ha le sue radici in un Bb maggiore pulitissimo ed è incalzato dalle pennate della chitarra acustica e da una batteria affamata. Il tutto viene “centrifugato” dall’organo e da un’interpretazione vocale dylaniana a tratti quasi beffarda, che poco più di un decennio dopo avremmo trovato in un brano, “I Feel a Change Comin’ On”, che pur essendo così distante da questo condivide con esso alcuni sottili elementi, dalla tonalità al ritmo. Anche qui alcuni versi alternativi, pur meno riusciti di quelli scelti per il testo definitivo, colpiscono per la loro capacità di essere insieme astratti e concreti: «I’m standing in the shadows waiting for the parade to pass», canta Dylan con un sorriso sardonico. La mutazione cui il brano andrà incontro è clamorosa: l’altro take che il box ci offre, che è molto simile a quello scelto per l’LP originale, pare annegare nella notte più scura, precipitato e inabissatosi nelle sabbie mobili eterne di un Mi maggiore angosciante, soffocato da un abbraccio mortifero dal quale l’io lirico non riesce a districarsi.
Anche nei take alternativi di “Standing in the Doorway” emerge quella insaziabile e costante ricerca di pace e di salvezza da parte di un’anima pellegrina mai del tutto appagata quale è Dylan. È un sentimento e una quête che caratterizzano da sempre la sua produzione artistica, anche quella pittorica e scultorea oltre a quella cantautorale. Se prendiamo in esame uno dei due take alternativi del brano è impossibile non soffermarsi sullo spazio che il secondo di questa coppia di versi, “I don’t know if I saw you, if I would kiss your or kill you / It probably would make no difference to you anyhow”, occupa in questa sua forma: le sillabe sono numerose, il cantato è sciolto e imprevedibile, gli strumenti quasi invitano Bob a uscire fuori dal selciato ritmico, una cifra stilistica tipicamente dylaniana. Dylan ama allungare e accorciare le vocali in base alla situazione: qui compatta le sillabe come se andasse di corsa, incastrando un alto numero di parole in pochissimi istanti, mentre il take incluso nel disco stravolgerà, anche se solo in parte, questo approccio.
Quello che emerge fin dai primissimi ascolti del box è che non si può più fare a meno di queste versioni: esse aggiungono, come al solito, qualcosa di fondamentale al discorso nel loro essere una porta spalancata sulla genesi dei brani e dell’opera tutta. La versione definitiva di “Standing in the Doorway”, quella finita su Time Out of Mind, risolve, con altrettanta efficacia ma con un diverso effetto, il secondo di quei due versi citati poco sopra in questo modo: «It probably wouldn’t matter to you anyhow». Il cantato malconcio e malinconico non si ribella così tanto al ritmo; anche se, in ogni caso, non si adatta a esso, quasi lo accompagna, semmai, e lo rafforza, dilatando ogni sillaba e rallentando la fuga dell’io lirico di fronte ai suoi dubbi. Siamo di fronte a due opzioni entrambe valide: nel contesto di Time Out of Mind quale disco finito è perfetto il take scelto, ma nel Time Out of Mind “opera aperta” ogni altro take funziona. Come hanno ampiamente dimostrato tutti i Bootleg Series, qualsiasi album e live di Dylan è a suo modo un’opera aperta, anche il più straordinario e perfetto.
Non è un caso, inoltre, che il box set sia intitolato Fragments. I frammenti non sono solamente i vari take in studio proposti, che offrono, come al solito, una chance succulenta di spiare dal buco della serratura il percorso che ha portato il cantautore a scrivere e a incidere ciò che ha scritto e inciso; di frammenti si può parlare, infatti, anche per la tecnica stessa che ha usato Dylan per completare molti dei brani. Non è sbagliato parlare, per il Dylan di quegli anni, di una vera e propria “modalità collage” nella quale i versi pensati per una certa parte di un brano possono finire in un altro punto dello stesso oppure un verso pensato per un certo brano può inserirsi in un altro, una caratteristica che ha notato anche Alessandro Carrera, uno dei più rilevanti studiosi dylaniani in ambito accademico, e che probabilmente ha indirizzato, in parte, anche il destino di Time Out of Mind. A un certo punto di un take alternativo di “Can’t Wait”, per esempio, Dylan canta «My back is to the sun because the light is too intense / I can see what everybody in the world is up against»: nella versione definitiva questo distico è espunto, ma esso ricomparirà pochi anni dopo in “Sugar Baby”, pubblicata su “Love and Theft” nel 2001.
In merito a questo tipo di costruzione dei brani ha riflettuto lo stesso Dylan in una serie di interviste rilasciate tra 1997 e 2001, anche se, come ben sappiamo, ciò che Dylan dichiara deve essere spesso preso con le pinze. Discutendo di “Highlands”, che, nei suoi sedici minuti appassionanti, con il suo tono che ricorda un componimento della grecità antica tardo-arcaica che ha già qualcosa del periodo classico, chiude Time Out of Mind e di cui nel box vengono proposte sia una versione alternativa in studio, più breve, sia una esecuzione dal vivo, Dylan sostiene, parlando, nel ’97, con Edna Gundersen di USA Today, che il brano originariamente avesse un numero di versi molto più ampio e che lui «had to scramble around to find the right types of lyrics and basically moved lyrics around and put together the puzzle. It might sound Byzantine in its way, but it seems to make sense, doesn’t it?» [i corsivi nella citazione sono di chi scrive]. Siamo di fronte a un puzzle, dunque, i cui pezzi, però, dal momento che l’autore del puzzle è anche colui che deve completarlo, possono essere tagliuzzati, adattati e spostati finché lui lo desidera. È un mosaico postmoderno, qualcosa di bizantino, appunto, calato in un contesto differente e “aggiornato”.
Come sempre accade con Dylan, la dimensione concertistica non può mai vivere al di fuori dei rapporti con la fase artistica che il cantautore sta attraversando in un determinato momento. Le performance dal vivo contenute sul Bootleg Series 17 sono entusiasmanti e raccontano le avventure di una serie di brani che sul palcoscenico crescono, mutano e si mimetizzano con il loro creatore ed esecutore fino a cucirglisi addosso con una naturalezza quasi disarmante. Per Dylan le canzoni, come detto, sono opere aperte che si sviluppano e si ramificano in tutte le possibilità che già in nuce esse potevano offrire, e il Disco 4 del box è una dimostrazione continua e mozzafiato di ciò.
Nel periodo preso in esame Bob Dylan e la sua band si divertono a sminuzzare e poi a ricostruire mattoncino dopo mattoncino questi brani, rivisitando alcuni arrangiamenti alla radice, lasciandone quasi intatti altri, rendendo tutto, però, argilla calda da modellare e scolpire. La furia di “Cold Irons Bound” ci fa precipitare nella fucina di Efesto, con i colpi cadenzati e bellici della batteria e le schegge imprevedibili dei fraseggi di chitarra. La voce di Dylan è un monito: arriva da un’altra dimensione, ci mette in guardia da quel che potrebbe attenderci, è lusinghiera e ambigua. Nella performance da crooner di “Make You Feel My Love” Dylan sembra quasi condurci per mano in una stanza di specchi, dove ovunque ci voltiamo vediamo sempre noi stessi. Nelle pulsazioni visionarie delle due “Can’t Wait” come nel cinico romanticismo di una scoppiettante “Mississippi” Dylan entra dentro i brani e li attraversa, li percorre, li nutre.
In questo quadro di rivisitazione critica di Time Out of Mind notevole importanza riveste anche il nuovo mix del disco. Se Lanois aveva deciso di immergere voci e strumenti in un turbinio polveroso, in una tempesta di sabbia che rendeva i pezzi come avvolti da una coltre di nebbia, un indistinto feroce che conduceva l’io lirico, e con lui l’ascoltatore, verso il basso, in quel «down on the bottom» da cui sembra quasi impossibile rialzarsi, il mix di Brauer concede ai brani una maggiore libertà di muoversi sciogliendo un poco i lacci che li trattenevano. Esso non si sostituisce, ovviamente, all’opera ufficiale uscita venticinque anni fa ma concede a essa una storia alternativa, quella in cui una volta toccato quel «bottom» di quel «world full of lies» si inizia a risalire lentamente. La dinamicità di questa nuova versione in qualche modo rimescola le carte di un mazzo che sembrava ingeneroso e impossibile scompigliare. Da qui riparte ancora una volta questo circolo eterno, e la frase che dà il titolo al disco, una formula shakesperiana pronunciata da Mercutio, si adatta perfettamente, oggi come ieri, a quest’opera: «Her chariot is an empty hazel-nut / Made by the joiner squirrel or old grub, / Time out o’ mind the fairies’ coachmakers». (Romeo and Juliet, Act 1, Scene 4).