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A Novembre Kalporz era in prima fila al Magnolia per lo splendido concerto di M. Ward, e da allora chi scrive ha intrapreso un viaggio alla riscoperta della sua discografia, che lo porta ora a formulare uno di quei giudizi eccessivi, figli dell’emotività: M. Ward è uno dei migliori cantautori folk-rock americani degli ultimi 20 anni. E ancora: M. Ward può essere ascoltato in qualsiasi momento della giornata, quando si è allegri, quando si è malinconici, infastiditi, stanchi, e il risultato sarà identico, una sensazione istantanea di benessere ed accettazione.
Cosa si può volere di più dalla musica?
Va bene, il filtro soggettivo dei gusti frega anche il recensore più navigato, ma il #TBT ha l’obiettivo di rievocare artisti di valore un po’ persi nel dimenticatoio, e M. Ward è il perfetto rappresentante di un movimento, quello folk-rock anni ’00 ed inizio anni ’10, che ha perso appeal e che non racconta lo zeitgeist del contemporaneo con la stessa puntualità di altri generi, ma che ha prodotto tante parabole musicali degne di essere ricordate. Qualcuno, pensiamo soprattutto a Cass McCombs, calca ancora i palchi di mezzo mondo con un discreto successo, altri, come Conor Oberst e i suoi Bright Eyes, rimangono come intrappolati in un dato momento storico, come se potessero esistere solo in relazione ad un’epoca che coincide con il loro picco creativo e di popolarità. Poi ci sono personaggi come The Tallest Man On Earth (ma si potrebbero fare moltissimi esempi), finiti nel dimenticatoio perché già a quel tempo forse erano troppo derivativi per un genere già derivativo per eccellenza. Infine, c’è anche qualcuno che purtroppo non è più tra noi, come i compianti David Berman e Jason Molina. E in tutto questo, M. Ward?
Negli States forse qualcuno lo ricorda più come partner di Zooey Deschanel, la splendida e spietata Summer di (500) Giorni Insieme – anche lei, che fine ha fatto? – negli She&Him, mentre in Italia il seguito non è mai stato particolarmente devoto, vedasi infatti la sala non proprio gremita del Magnolia (detto che suonava anche a Bologna e Roma). Ed è doveroso tornare proprio al concerto, uno dei migliori visti nell’autunno milanese, per parlare di un’artista capace come pochi di costruire un’intimità con il suo pubblico. Dal vivo M.Ward suona spesso in solitudine, accompagnato giusto da una sedia, una chitarra, un tavolino e un abat-jour; un set minimalistico ma incredibilmente atmosferico. Ogni tanto si fa scortare da alcuni musicisti che non sono mai dei semplici turnisti di supporto, quanto entità distinte che godono di vita ed identità proprie; diciamo pure dei vecchi amici, pronti a mettere al servizio voce e talento alle storie raccontate dall’artista dell’Oregon. E questo basta. Come basta il suo stile chitarristico fuori dal comune e la sua voce, che passa senza sforzo da falsetto e sussurrato per atterrare su un timbro baritonale caldo ed accogliente.
Riascoltando i tre dischi più celebrati del cantante, “Transfiguration of Vincent”, “Transistor Radio” e “Post-War” usciti uno dopo l’altro tra il 2003 e il 2009, si fa davvero fatica a scegliere il migliore. Fatevi un favore, sempre che quanto scritto fin qui vi risuoni in qualche modo, e recuperateli.
Ci troverete dentro le radici della musica americana: country da saloon, rock’n’roll anni ’50, blues bianco, working-class ballad alla Springsteen, oltre al nostro caro e intramontabile indie-folk. Un immaginario eterno, che forse solo M. Ward è stato in grado di riadattare con un approccio così “fanciullesco” e sincero.
Foto di Roberta Parkin