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Londra chiama (a stretto giro escono Italia 90 e Shame), Dublino risponde: è finalmente arrivato il momento dei Murder Capital. “Gigi’s Recovery” si distingue dall’esordio “When I Have Fears” del 2019 già da una copertina, opera di Peter Doyle, che fa pensare tanto ai nostri tempi difficili – in stile Van Gogh? che ne dite? – quanto alla band stessa incerta sulla strada musicale da intraprendere; tuttavia proprio questo distacco da uno stasi in bianco e nero è la chiave di lettura del nuovo album, prodotto da John Congleton.
Sonorità (non solo) post-punk che escono alla luce in una tavolozza più ricca e matura, dove la forza del repertorio sta nella sua varietà e nell’emozionante interpretazione di James McGovern, a ugola non da meno del concittadino Grian Chatten dei Fontaines D.C.
I dodici brani raccontano in una sorta di orbita circolare il mondo e la vita successivi alle perdite dei propri cari, dallo sconforto dell’isolamento (“Crying”) alla rinascita interiore (“Only Good Things”). Dal verso “Existence Fading” arrivando a “Existence Changing” – in intro e outro – c’è un percorso affascinante dove la melodia intreccia la sperimentazione, nel solco di grandi dischi rock che i nostri hanno di certo consumato, quali “Achtung Baby” degli U2 e “Ok Computer” dei Radiohead. Ad essere più precisi, per il sottoscritto i Murder Capital stanno riprendendo in mano il discorso interrotto dagli Editors a capo del secondo album “An End Has A Start” del 2007: chitarre fragorose, l’ispirazione nella big music di ottantiana memoria e lo spleen da post-millennium tension dei testi.
La padronanza dei generi fa di “Gigi’s Recovery” un lavoro solido e di ottimo auspicio per il futuro del quintetto irlandese. Tra le ritmiche drum’n’bass di “A Thousand Lives” e lo scatto hardcore-punk di “Return My Head” passa un universo; “We Had To Disappear” mostra l’eleganza degli arrangiamenti in studio forniti da Congleton, non a caso collaboratore decisivo alle fortune di Angel Olsen e St. Vincent. La piano-ballad “The Lie Becomes The Self” suona mutevole ed insieme profonda come sapeva essere l’indie-rock scritto da Grandaddy e Eels, quando “Ethel” vive del pathos generato dalle chitarre di Damien Tuit e Cathal Roper e dalle liriche di McGovern pregne di un romanticismo (“I’m getting it tight from life/And I can’t control it/Flirting with me like Well/You’re full of flavour and you’re winning best dressed tonight/I always wanted it to be like this for us/Having our first kid/Name her Ethel”) degno di James Joyce e Sally Rooney.
Che i Murder Capital amino la poesia lo capiamo anche da “The Stars Will Leave Their Stage” e la stessa “Gigi’s Recovery” (“Now I Can See The Skyline/Flying By My Window/I Can Feel It All Flow/I Am Not My Sorrow“) dove McGovern indossa i panni da crooner alla Leonard Cohen, o nei toni drammatici ricordando Nick Cave e Jim Morrison. “Belonging” infine è un lullaby dal gusto folktronico che sintetizza il valore dell’intero disco: più lo si ascolta più entra – e resta – dentro.
83/100
Foto in Home di Grayce Leonard