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#Richiami
“Odelay” di Beck è un disco troppo grande per essere contenuto in una recensione, un lavoro che si può prendere da mille diverse angolature per giungere alla stessa conclusione: ossia di una pietra miliare scolpita negli anni novanta e nel cuore di chi ama la musica alternativa nelle sue infinite possibilità e fascinazioni. Mi sono velocemente passato la lista degli album più importanti realizzati nel 1996 e questo sembra frullarli tutti in uno: da “In A Bar Under The Sea” dei dEUS a “Now I Got Worry” della Jon Spencer Blues Explosion passando per “Emperor Tomato Ketchup” degli Stereolab o “K” dei Kula Shaker, “Odelay” è un trip di generi e umori ad un primo ascolto megalomane eppure venato di successo, del resto in “Loser” cantava di essere il re dei perdenti e nel frattempo migliaia di persone si sono riconosciute nella canzone e da lì è diventato un fottuto vincente – ma pur sempre nei panni alt-country di un “Derelict”: geniale.
Schizofrenicamente diviso tra ipertecnologia e antitecnologia, il quinto album di Beck Hansen è un concentrato di modernismo che sa di antico, frullando indifferentemente il suono dell’armonica a ritmi hip-hop e decorando il tutto con chitarra slide (“Hotwax”) o un hammond vintage (“Sissyneck”). Un risultato possibile anche grazie all’aiuto in fase di produzione e scrittura di John King e Michael Simpson, più noti come i Dust Brothers; il duo è legato a doppio filo ai Beastie Boys di “Paul’s Boutique” di cui in parte “Odelay” ricalca le mosse, quando spara nei pezzi inserti e samples tanto improvvisi quanto a fuoco con l’avvicinarsi di un nuovo millennio. Il lavoro di squadra dietro a “Odelay” (figurano nei credits anche Mario Caldato Jr., Joey Waronker dei R.E.M., Rob Schnapf, Charlie Haden) permette all’artista di Los Angeles di entrare nella Top 20 di Billboard e affacciarsi nel mercato europeo e australe come mai successo per un nome del circuito indipendente. “I’m pickin’ up the pieces and I’m puttin’ them up for sale” proclama in “Lord Only Knows”: detto e fatto.
Tra gli estratti, “Devil’s Haircut” apre la raccolta in “a typically aberrant mixture of beatbox pop and punk poetry” per David Sinclair del Times e non potrebbe esserci inizio più dirompente; “Where It’s At” omaggia tanto l’hip-hop old school di Mantronix e Run DMC quanto la follia artistica di Capitan Beefheart come mostrato nel videoclip in cui Beck indossa i suoi panni per “Trout Mask Replica”. “The New Pollution” stuzzica l’immaginario vincendo tre MTV Awards nel 1997 e unendo musicalmente funk, exotica e reminescenze dei Beatles di “Taxman”; “Jack-Ass” rilegge in chiave psichedelica la versione di “It’s All Over Now, Baby Blue” dei Them (o dei Chocolate Watchband?) con il lato B gemello “Strange Invitation” ad anticipare i palpiti orchestrali di “Sea Change” del 2002.
Altrove nell’album il blues travalica nel cyber-punk, vedi “Novocane”, o c’è una “Minus” ancora più spinta al noise di Sonic Youth e Nirvana; “Readymade” sperimenta con il dub come i Clash della maturità e la ghost-track “Deadweight” ci manda in Brasile a trovare Veloso e gli Os Mutantes, non senza un filtro iconoclasta e visionario appartenuto a esperienze di crossover ante-litteram come il Pop Group e i Talking Heads. “Odelay”, traduzione dell’informale “what’s up“, spedisce Beck nel girone di quelli che contano ma lo fa con una proposta totale, rivoluzionaria e a oggi insuperata.
96/100