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In vista del suo concerto fiorentino di questo venerdì, inserito nella rassegna <code> di Disconnect, ho raggiunto telefonicamente Marina Herlop per parlare di “Pripyat”, il suo disco pubblicato su PAN lo scorso anno, e come ha vissuto un 2022 pieno di impegni musicali.
Ne è venuta fuori una bella e piacevolissima chiaccherata a distanza, nella quale ci siamo confrontati e divertiti, parlando di musica dal madrigale al k-pop senza vergogna, ma con un solo obiettivo: riflettere sui meccanismi che rendono la musica un qualcosa di così speciale per noi e i meccanismi attraverso i quali la lavoriamo.
Durante la nostra telefonata abbiamo citato vari musicisti e compositori, ma la frase che forse più mi ha fatto pensare a questo dialogo mi è venuta in mente subito dopo la fine dell’intervista, ed è di un altro pianista, Keith Jarrett. “Non sono emozioni, è il desiderio feroce di suonare… Bisogna solo raggiungere il nucleo della musica e poi questa suona da sola.”
Ciao Marina, come stai? Ho visto che hai suonato molto quest’anno! Ti ha dato qualche nuovo input questo contatto con il palco e con il pubblico?
Sì, ho davvero suonato molto, o almeno relativamente a quanto suonassi prima, ovvero niente! Nel 2022 ho suonato 52 concerti in giro quindi sì, abbastanza. Prima di tutto questo per me fare musica era più un esercizio fine a sé stesso, senza mai pensare che ci fossero persone che la ascoltassero davvero. Senza voler sembrare catastrofica, non ho mai pensato che qualcuno ascoltasse i miei precedenti dischi, mentre li facevo, o venisse poi ai concerti.
Producendo musica sperimentale e avendo già pubblicato due dischi, pensavo che non sarebbe mai cambiato, non che fossi scontenta di questo o triste. Poi all’improvviso tutti questi ingaggi, così tanta gente ai concerti, conoscono le canzoni, e sono rimasta senza parole! Adesso che sto lavorando a nuova musica penso molto a chi ascolterà: aggiunge uno sforzo, perché non devo soddisfare solo i miei criteri, ma anche quelli di qualcun altro. Suonare di fronte a tante persone, e farle divertire, è stato un ottimo esercizio.
Quindi ti sei un po’ riscoperta con questo approccio più ‘pop’ alla musica dal vivo?
Assolutamente. Adoro quando le persone possono stare in piedi, vicino al palco. Mi piace perché credo sia il senso di fare concerti, alla fine stiamo suonando per chi ci ascolta ed è necessario la loro presenza. Più che pop, però, penso sia un approccio più ancestrale, legato al rituale e alle origini della musica. A volte nel pop ti trovi a 3 kilometri da Ariana Grande e puoi solo vederla tramite un maxischermo, invece che essere lì vicino. Mi piace quando le persone si affollano e creiamo un nostro spazio. Quando invece le persone restano sedute, invece, è più una sfida: la gente ti prende più seriamente, sono meno concentrati sulla loro presenza e più sull’ascolto. Tutto molto serioso. E mentre la mia musica potrebbe sembrarlo, non sono una persona molto seria…
Allora devo metterti in guardia, perché al concerto di venerdì (nella storica Sala Vanni di Firenze, ndr) saremo tutti seduti di fronte a te! A tal proposito, hai visto qualche foto della Sala? Mi è venuto da pensare che la tua musica fosse perfetta per quel luogo, come se ci fosse un collegamento semantico tra la frammentazione dei suoni che utilizzi e le strutture dei pezzi per cori polifonici che venivano originariamente eseguite nei luoghi di chiesa…
Wow, grazie per il complimento! Hai mai sentito la musica di Carlo Gesualdo? Era un compositore italiano del XVI secolo, e faceva della musica veramente estrema per il suo tempo, inseriva un sacco di dissonanze, veramente strano… senti che è un musicista barocco, ma è veramente unico. Un tipo folle, ha pure ucciso la moglie, e la gente dandolo per pazzo ha dimenticato la sua musica. Praticamente l’underground del barocco.
Interessante, andrò subito ad ascoltarlo! Continuando a parlare di storia, dato che hai una preparazione classica, mi chiedevo quale repertorio fosse quello che hai suonato di più, e se c’è qualche compositore a cui hai rubato qualcosa.
Oh… solo a pensarci divento nostalgica! Non mi rendevo conto quando ero più giovane di quanto ero dedicata e concentrata sulla musica, fino a quando ne sono diventata ossessionata intorno ai 21 anni. I cinque o sei anni successivi ho suonato tantissimo il piano, tutta la mia vita girava intorno a quello. Il mio repertorio preferito era quello impressionista: Debussy, Ravel, Granados, ovviamente Chopin, Bach…
Sai che non lo avrei detto? Pensando all’influenza degli artisti impressionisti oggi mi viene più da pensare al minimalismo, o all’ambient, con quelle influenze orientali…
Capisco. Mi fa veramente piacere parlare di queste cose e ricevere queste domande, se hai abbastanza tempo ti rispondo…
Certo, tutto il tempo che vuoi! Penso che riuscire a capire gli ascolti e il percorso personale di un’artista aiuti a relazionarsi molto meglio alla sua musica.
Se ascolti i primi due dischi che ho pubblicato, sono principalmente pezzi per piano con qualche intervento elettronico. Penso che quello che ho preso dalle pièce per piano in generale sia la loro struttura, alla quale ho aggiunto la mia interpretazione. Come sai la struttura delle pièces per piano è molto complessa, al contrario di una canzone pop. Quindi la mia idea della musica era molto stringente, forse anche troppo! Così ho poi cominciato a mettere più energia nel trovare nuove strutture per i miei brani, perché credo che determini molto l’entità del pezzo a cui stai lavorando. E il pubblico, anche se magari pensa di non comprendere la complessità di queste questioni le avverte inconsciamente mentre sta ascoltando!
Quello che penso è che la musica, non importa quanto complessa sia, abbia bisogno di buone melodie e buone strutture. E anche quando si da meno importanza alla struttura, rimane comunque un gioco di proporzioni, che sono importantissime per creare delle melodie, o per scrivere delle percussioni…
Quindi alla fine non mi importa se sto lavorando a un disco di elettronica, uno per piano o voce o anche per flauto e violino; gli strumenti non sono importanti, quello che è più importante nella musica sono sempre i soliti elementi: melodia, armonia, ritmo e tempo, e come riesci a mescolare questi per creare qualcosa di tuo. Credo che alla fine quello che rimane di importante sia sempre questo. Se trasponessi i brani di Ravel per strumenti elettronici, sarebbe comunque bellissimo!
Non tento di copiare le armonie dei miei compositori di riferimento, posso ispirarmi se immagino un certo tipo di armonia, ma più che altro rimango legata a loro per le riflessioni sulle strutture, proporzioni ed equilibrio, che è la cosa più importante.
Quando ho cominciato a pensare di fare musica ero molto più giocosa, mi suonava tutto molto fresco e mi sentivo più libera, così che i brani uscivano più facilmente. Ora che ho cominciato a porre tutta questa attenzione sulle strutture dei brani sembra che sia diventato più difficile, ma sono convinta che in fondo nella musica ci sia una semplicità di base…
Forse conosci il compositore Fluxus Giuseppe Chiari, che diceva che “l’arte è facile, la musica è facile”. Per quanto possa essere stata composta in maniera complessa, ci sono sempre quegli elementi che emozionano l’ascoltatore in maniera quasi primordiale…
Assolutamente. E li ritrovi in musiche così diverse tra loro… Ieri stavo ascoltando il famoso tema di “West Side Story” [lo intona] …e le persone impazziscono! Mentre quando ascolti altri tipi di musiche, magari più serie, sono una schifezza. E allora mi fermo a pensare: cosa smuove le persone? Quando sei troppo complesso, appari strano alle persone, ma basta inserire un paio di elementi ‘pop’ e le persone vanno fuori di testa. Se invece di avere un approccio troppo conscio alla musica ti lasci andare a un modo quasi improvvisativo è come se fossi connesso a qualcos altro…
Sì, non al tuo cervello quanto al tuo corpo!
Esatto! Non puoi esprimerti al meglio se sei totalmente lì, a livello cerebrale. Come quando racconti una barzelletta, funziona solo se sei rilassato, con i tuoi amici, succede e basta.
Nell’ultima risposta hai già un po’ anticipato quello che ti volevo chiedere adesso: col tuo ultimo lavoro hai cambiato il tuo approccio alla composizione, credi che abbia cambiato in qualche misura il modo in cui guardi alla musica e te personalmente come musicista?
Per me il cambio più importante è stato il fatto di pormi dei limiti all’inizio del processo creativo. Perché fino a quando registro un album di brani per pianoforte, il limite che ho sono le mie mani, pure con tutte le possibilità che ti da la registrazione. Un limite molto umano.
Quando ho cominciato a vedere le possibilità che mi dava lavorare con un computer, ho pensato invece di essere un dio! Dovresti vedere le mie sessioni su Ableton Live, con 150 tracce per brano… Quindi esiste questo contrasto tra l’umano e la macchina, perché alla fine tu rimani sempre una persona! All’inizio era tutto fin troppo complesso, e ho dovuto riportare ordine. Credimi, un processo che mi ha davvero, davvero prosciugato. Era anche divertente a momenti, ma in generale è stato pessimo! Ma sono veramente felice di averlo fatto, anche perché questo ti consente di prendere alcuni elementi e dire “bene, questo non ci sta, ma teniamolo per il prossimo album…”. Infatti alcuni dei brani del prossimo disco, che dovrebbe uscire quest’anno, li ho sempre suonati nei miei live show!
E per questo disco, che vorrei in qualche maniera essere più grande e ambizioso del primo, ho bisogno di stare molto attenta, perché altrimenti finirò per impazzire! Più vuoi che sia grande il tuo lavoro, più devi concentrarti perché tutto funzioni e sia in ordine. Come se dovessi costruire una casa e invece che andare direttamente al negozio di mattoni, guidassi finchè non trovi una pietra, e così via… alla fine potresti anche costruire una casetta, ma non come la volevi tu!
Mi fai quasi venire voglia di mettere in ordine il mio archivio di sample! Comunque, a proposito della tua risposta, “Pripyat” mi ha fatto immaginare proprio un conflitto tra umano e macchina, come se ci fosse un organismo umano nato in un ecosistema digitale che sta muovendo i primi passi… tu stavi pensando a qualcosa durante le registrazioni?
A niente! Pensavo a chi avrebbe ascoltato la musica, senza avere in mente nessuno in particolare, e ai vari processi psicologici che avrebbe potuto scatenare l’ascolto. Non cerco mai di dare all’ascoltatore ciò che vuole, o alle volte gli do quello che loro non credono di volere, ma implicitamente è quello che cercano… Se invece proponi un’immagine ben definita magari qualcuno direbbe “no, non è quello che voglio”, ma alla fine è solo la mia immaginazione!
Non vedo comunque immagini mentre compongo; mi piace quando la gente ci trova delle storie, ho adorato la tua visione e ascolterò il disco per vedere se la trovo anche io, ma allo stesso tempo mi piace essere molto clinica.
Beh, alla fine arrivi da una preparazione accademica, non mi sorprende che tu abbia un modo di agire molto analitico!
Sì, mi piace essere in grado di creare qualcosa di emozionale, senza pensare alle emozioni, La musica la vedo come un gioco di proporzioni. E dato che non sono un calcolatore, ma un essere umano con un cuore, se metto insieme quelle note che stanno bene insieme riesco a trovare delle emozioni. Ma non so… alla fine tanta della musica che dovrebbe suonare emozionale non è quella che preferisco. Alle volte mi vengono i brividi a sentire le canzoni della Disney, o canzoni super pop. Ma alla fine è la musica che mi piace davvero? Non credo.
Capisco perfettamente. In questo momento della mia vita, nonostante mi dedichi molto seriamente allo studio della musica e al suo ascolto, mi emoziono tantissimo su alcune canzoni completamente mainstream…
Vedi! Mi sono davvero stancata di pensare che esistano delle musiche buone o meno buone… esistono grandi pezzi pop, che sono particolarmente speciali, ma in tutti i generi… come esiste della musica classica pessima!
Ultima domanda: cosa consiglieresti a un giovane musicista, in base alla tua esperienza? Credi che l’approccio da strumentista sia sempre fondamentale o che ormai la musica sia da intendere come rapporti tra frequenze e suoni, anche slegati dallo strumento in sé?
Penso che si debba prendere il meglio da entrambi i mondi. Per esempio, quando ero in conservatorio pensavo “Bene. Vediamo cosa mi piace e cosa non mi piace”. Così ho preso quello che faceva per me lasciando indietro il resto. E quando mi sono approcciata ad altre pratiche, ho sempre cercato di inserire nel mio bagaglio tutto ciò che mi piacesse. Penso che lo scopo di un musicista sia anche quello di combinare queste esperienze.
Per quanto mi riguarda, dalla mia esperienza ho portato dietro molto l’uso dell’armonia. Moltissima della musica che mi piace è tonale, anche se conosco pochissimo le regole della tonalità! Pensa, nemmeno saprei dirti in che tonalità suonano i miei pezzi! Chiaramente so le note, perché le ho suonate, ma non ho tutta questa consapevolezza.
Quando guardo la tastiera, penso agli accordi e li visualizzo molto lentamente, grazie alla mia conoscenza dell’armonia so che funziona ma se non devo suonare con qualcun altro non sento il bisogno di sapere la tonalità! Perché dovrei?
In questi giorni sto studiando le armonie impressioniste, come quelle di Bartok e altri. Queste armonie non sono molto cromatiche ed escono fuori questi accordi inaspettati… come un accordo in maggiore, te lo aspetteresti felice, e invece no è strano, come se ci fosse qualcosa dietro… Mi piacerebbe riuscire a riportare queste sensazioni nella mia musica, senza però dover ripercorrere tutta la storia dell’armonia, arrivare direttamente a quel concetto e saperlo mettere in pratica. Per riuscire a concludere la mia nuova musica mi serve riuscire a capire questo.
Tornando alla tua domanda, penso che imparare a suonare e conoscere uno strumento sia essenziale. Arrivando a conoscere lo strumento arrivi direttamente a esprimerti come vuoi. In più, studiare uno strumento richiede un sacco di attenzioni e di dedicazione. Se studi Chopin, vedrai come suonandolo molto lentamente la sua musica si manifesti in modo ancora più potente, e attraverso gli esercizi arrivi a conoscere la musica anche indirettamente.
Penso anche che ognuno abbia la sua strada, e magari per qualcuno la strada dello strumento possa non essere la migliore, ma alla fine l’importante è l’accogliere tutto. Nella mia idea per rendersi conto della complessità della musica, e se vuoi realizzare qualcosa di importante, essere anche strumentisti è necessario. Se avrò un figlio proverò a fargli suonare uno strumento. Anche perché amo talmente tanto la musica che non riesco a immaginare che altri non ne siano attratti! Ma a prescindere da questo, l’importante è la passione che uno mette nel proprio campo e nel proprio strumento. Se non fossi stata musicista, avrei fatto altro ma con la stessa passione e lo stesso impegno. Certo, è stancante, richiede moltissimo da te e devi fare delle rinunce, ma non potrei mai portare via questo da me.
Ti capisco. Come se fosse l’unico modo per stare al mondo, una maledizione!
Sì, ahahahah. Allo stesso tempo il meglio e il peggio della vita.
O come una storia d’amore.
Esatto, le cose si fanno interessanti quando cominciano a diventare noiose. Certo, all’inizio è tutto stupefacente, in questo periodo ascolto un sacco di flamenco ed è tutto bello, non vedo l’ora però che cominci ad annoiarmi, almeno potrò cominciare a capirlo nel profondo!
(Matteo Mannocci)