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Il nono album in studio di Lana Del Rey è l’ennesimo tuffo nel passato che amplia ulteriormente le dinamiche esplorate dall’autrice nei suoi due precedenti lavori che erano usciti a pochi mesi di distanza tra loro due anni fa. Se non è coeso e non ha la potenza e la solidità che fuoriescono dall’opus magnum che fu NFR, Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd prova ugualmente a seguire, in intensità e in ambizione, i ciottoli di quel vertiginoso percorso e, nonostante qualche minuto di troppo nella sua durata totale, riesce a costruire una torre d’avorio fragile ed elegante da cui è emozionante scrutare il panorama intorno.
Non si può di certo dire che Lana Del Rey, con le sue contraddizioni, fragilità e speranze disperate, non rappresenti qualcosa che giace nel fondale più recondito e insondabile dell’americanità. Tutto ciò o quasi che l’America vorrebbe essere, un fiore delicato che vive nel perenne rischio di spezzarsi o di sfiorire, e al tempo stesso tutto quello che serve per distruggere i suoi luoghi comuni e le sue ipocrisie è contenuto nelle peregrinazioni a tratti carnali e a tratti mistiche di Lana. «This is the experience of bein’ an American whore», canta Del Rey nella splendida “A&W”, e non potremmo mai affermare che la sincerità non sia una delle sue migliori doti. Schietta nella sua ironia decadente, la nuova opera di Lana cementifica il percorso che l’autrice ha esplorato finora senza paura di non guardarsi troppo indietro. «It’s time to go», ripete con convinzione in “Paris, Texas”. Il suo timbro si arrampica sugli arpeggi pianistici che la spingono e la imbeccano.
Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd è un vertiginoso e vorticoso divenire. In esso schizzi e idee compaiono, spariscono, ricompaiono in vesti differenti, muoiono, resuscitano, si sfilacciano. In una recente intervista-specchio con Billie Eilish per l’Interview Magazine Lana, parlando del nuovo disco, ha lasciato intendere che esso è frutto di un nuovo metodo di lavoro e di una filosofia di vita mutevole e massimamente in fieri: “I feel differently on different days. It’s all about the process, not so much the results”. Andare avanti in un percorso, seguirne meticolosamente le sue deviazioni e i suoi pericoli, lasciare i freni e ancora andare, permettendo che sia il sentiero stesso oppure il vento che lo batte a consegnarci alla sua meta. Se in NFR, stando sempre alle parole di Del Rey, ogni cosa era “about world-building”, adesso, invece, tutto “was straight vibing”.
Quel “next best American record” impacchettato in scatoloni di fantasia e melancolia che fu NFR è divenuto, insomma, il punto di partenza di una nuova fase artistica per Lana, che anche nel metodo e nei suoni dal 2020 in poi va in cerca di qualcosa di parzialmente differente; si parte pur sempre da quel disco-simbolo, pietra d’inciampo inevitabile nel cantautorato tutto degli ultimi cinque o dieci anni; Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd, però, sa scrollarsi di dosso il peso del suo passato e della patria potestas della sua creatrice per provare a ritagliarsi un suo speciale angolo di esistenza e resistenza. La volontà di guardare al passato come principale fonte d’ispirazione resta immutato, come evidenzia anche il titolo del disco, che richiama il tunnel sotterraneo di Long Beach chiuso sin dagli Anni Sessanta, un tunnel che diventa una metafora di un timore incontenibile che è a lungo esplorato nel progetto, come Lana ha ribadito a Eilish: “Would it be a worrisome concept to be boxed out and sealed up with all these beautiful things inside with no one able to gain access except maybe family?”.
Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd nasce con queste premesse in mezzo a una ennesima bulimia creativa di Del Rey, che per completare i brani ha scelto di far convivere tra loro produttori diversi, tra cui alcuni dei suoi collaboratori più fidati, Jack Antonoff su tutti, e anche parecchi artisti e amici, come Father John Misty, Jon Batiste, Tommy Genesis, i Bleachers; essendo questo nuovo disco anche l’album con più featuring artists di Lana dai tempi di Lust for Life, che uscì nel 2017, la polifonia e la ποικιλία che esso presenta sono elementi cruciali per decifrare l’opera e per cogliere tutti o quasi i suoi frutti.
Non è un caso che il disco si apra con “The Grants”, scritto dal Del Rey e Mike Hermosa, una ballata condotta dalle note di un piano dolce e arioso che mostra sin da subito le onde gospel che hanno influenzato il disco, un nucleo fondamentale che riemerge quasi ovunque nel lavoro e talvolta persino nei testi. È la famiglia a essere al centro e i riferimenti religiosi rinforzano i concetti che Lana vuole esprimere: “My grandmother’s last smile, I’m gonna take that too with me”, canta Del Rey sopra un tappeto ancestrale di ricordi e di timori, “It’s a beautiful life / Remember that too for me”.
Ma in un disco composito e stratificato come questo è difficile trovare una serie di fil rouges chiari e ben definiti, un trait d’union tra i frammenti che lo definiscano con precisione. Il gospel, la fede, gli affetti familiari, il voler essere quasi sempre e comunque altrove, in un altro tempo e spazio, e un bisogno di non sentirsi dimenticati in un mondo che è esso stesso destinato a subire questa sorte sono alcuni dei nodi più intensi e urgenti qui esplorati da Del Rey. Così la traccia che dà il titolo all’album assume i contorni di una preghiera per non essere consegnati all’oblio: “When’s it gonna be my turn? / Don’t forget me / When’s it gonna be my turn? / Open me up, tell me you like it”, canta Lana su una soffice superficie magmatica di riflessi di luce e di correnti talvolta opposte tra loro. Rifacendoci a Lucrezio diremmo che la sua voce è il miele ai bordi della tazza colma di un medicinale amaro cui non possiamo sottrarci. “Don’t forget me / Like the tunnel under Ocean Boulevard”, ribadisce Del Rey, non scansando quella sensazione di inutilità e di vuoto che spesso ci pervade.
I riferimenti musicali e letterari nel disco sono molteplici e richiamati in maniera ricercata e fine. Il gospel e il folk convivono con una naturalezza e una autenticità tali da farci ricordare finalmente che le loro radici sono irrimediabilmente contigue. La presenza di Father John Misty illumina la epifanica “Let the Light In”, dove la routine, l’amore e la creatività diventano un tutt’uno armonico sul quale cresce un equilibrio effimero eppure salvifico, mentre il ritmo spezzato e l’incedere psichedelico che caratterizzano “A&W”, in particolare la sua seconda parte, totalmente spiazzante rispetto a ciò che la precede, rendono il brano uno straordinario manifesto di poetica che è perfetto sia per il disco sia per Lana e forse addirittura un progetto a lungo termine, una direzione da seguire più che un traguardo già raggiunto. “A&W” sta per “American Whore”, e in essa si muovono quasi tutte le Lana che in parte abbiamo imparato a conoscere: l’impaurita, l’istintiva, l’ambiziosa, quella in cerca di attenzioni e di un amore clandestino, la vittima, la decadente. Nessun brano del disco è più Lana-centrico di questo.
Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd è anche un perfetto esempio di disco postmoderno, tipologia di opera cui Lana ci ha già abituato in passato. In esso convivono una ballata sognante come “Margaret”, dedicata alla compagna di Jack Antonoff e illuminata da versi semplici e al tempo stesso splendidamente confezionati, e un esperimento-collage come “Peppers”, tentacolare e rarefatta, che si edifica intorno al sample di un brano di Tommy Genesis e inserisce anche parti di un brano dei Surfaris. Altrettanto inaspettato è il brano di chiusura, “Taco Truck x VB”, che diventa un remix di “Venice Bitch”, diamante grezzo contenuto in Norman Fucking Rockwell!, nel momento in cui il nuovo pezzo si sfalda e si “consegna” all’altro, non prima, però, di aver permesso a Lana di dire, come al solito, quello che davvero pensa: «Before you talk, let me stop what you’re saying», canta con tono smaliziato, indifferente nei confronti di chi potrebbe ascoltarla, «I know, I know, I know that you hate me».
Uno dei massimi punti di forza di Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd sta proprio in quel senso di spontaneità e di indeterminatezza che traspare ovunque nel progetto. Esso ammette e include l’imperfezione, ciò che è instabile, il non interamente compiuto e il non sempre definito come forse mai era accaduto prima con Del Rey. E a questo approccio rimanda il riferimento, nella title track, a Harry Nilsson e a uno specifico passaggio della sua “Don’t Forget Me”, un momento d’imperfezione e di splendore che è una sorta di epigrafe all’intero disco. Esso è sia un invito sia un monito: ci si può concedere di lasciarsi perturbare dalle raffiche del vento solo se si hanno radici molto solide.
78/100
(Samuele Conficoni)