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In una prima parte di 2023 piuttosto avara di uscite particolarmente rilevanti, il nuovo disco degli Shame, “Food for Worms”, era certamente uno dei lavori più attesi: da un lato, per l’urgenza di provare a intuire la parabola artistica di una band che ha avuto il coraggio di mettere subito in discussione una formula che aveva raccolto il plauso pressoché unanime della stampa di settore un lustro fa, dall’altro per (tentare di) comprenderne la collocazione nelle gerarchie di questa nuova ondata di (post-) punk. I londinesi avevano conquistato parecchi estimatori cinque anni fa con quel “Songs of Praise” che, pur tradendo un evidente afflato punk, rimaneva un disco molto rock, perfettamente calato nel presente e impreziosito da una scrittura a metà fra il flusso di coscienza e il manifesto di una rabbia che da adolescenziale cominciava a farsi matura. “Drunk Tank Pink”, tre anni dopo, rinunciava all’approccio diretto dell’esordio e al suo sound compatto per inseguire soluzioni nuove: le traiettorie spezzate e imprevedibili dei Talking Heads e dei Gang of Four, un vago approssimarsi agli Art Brut e ai più recenti Parquet Courts e un cantato ancora devoto ai Fall di Mark E. Smith diventavano il nuovo tratto distintivo degli Shame. Nonostante il tentativo di modellare un sound più maturo e ricercato fosse stato indubbiamente apprezzabile, scelte meno istintive avevano probabilmente tolto un po’ di forza alla scrittura, determinando un risultato più divisivo.
Con il nuovo “Food for Worms”, gli Shame sembrano ancora voler rincorrere ostinatamente la maturità: stavolta lo fanno esplorando soluzioni più melodiche, per quanto la scelta della registrazione in presa diretta rischiasse di condurre altrove. Dopo i guizzi art del predecessore, dunque, gli Shame individuano nelle aperture verso l’indie rock e in un vago ammorbidimento pop i nuovi sentieri di crescita. Le tracce di questa svolta, comunque, non compaiono immediatamente: “Fingers of Steel” si limita a suggerire qualcosa di nuovo, ma non sembra preludere davvero a ciò che verrà, nonostante la presenza di un piano diroccato, con un sound energico inserito nell’ambito di coordinate rock nemmeno eccessivamente distanti dagli episodi più docili di “Songs of Praise”, mentre la successiva “Six-Pack” corre in direzione psych-garage, con approdi non del tutto familiari, ma comunque non derivanti da alcun tipo di ricerca melodica.
È da questo momento in poi che si scorge la necessità di un indirizzo nuovo nella mente dei londinesi. Coerentemente con questa intuizione, anche sul piano della scrittura è cambiata la prospettiva: lo sguardo, come spiegato dalla stessa band, non è più rivolto all’io in quanto tale, ma è un ponte per arrivare a raccontare il mondo circostante e il concetto di amicizia, pur muovendo dall’esperienza personale, quella di cinque ragazzi cresciuti insieme. Manifesto di “Food for Worms”, il cui titolo appare ironicamente ben lontano dai temi trattati, diventano allora “Adderall”, con un ritornello catchy e la partecipazione di Phoebe Bridgers, che con gli inglesi condivide l’etichetta Dead Oceans, e “Orchid”, un concentrato di acustica malinconia che è ben lontano dall’essere la svolta più prevedibile nella produzione degli Shame, ma che penetra sottopelle e, alla fine, riesce a convincere.
È difficile dire lo stesso di altri passaggi che si stagliano un po’ nel mezzo fra ciò che è stato e ciò che è adesso: lo sviluppo di “Burning by Design”, per esempio, appare un po’ forzato nonostante un’atmosfera drammatica dal grande potenziale, mentre “Different Person” abbozza troppe idee senza riuscire a elaborarle in maniera organica. Pur senza strafare, gli Shame sembrano più a loro agio quando prendono direzioni nette: l’incedere concitato ed elettrico di “The Fall of Paul”, impreziosito da un drumming denso di rabbia, rappresenta una limpida espressione di post-punk e un discorso simile è applicabile per “Alibis”, il pezzo più vicino a “Drunk Tank Pink” insieme a “Yankees”, che perde un po’ la bussola in coda. A chiudere il disco numero tre degli Shame è “All the People”, una sorta di ballad elettrica e alticcia, coerente per collocazione in scaletta e impostazione, ma meno riuscita degli altri due episodi educati del lotto.
C’è una cosa che sicuramente non manca agli Shame: il coraggio. Se il cambiamento di “Drunk Tank Pink” era – forse – anche figlio di quella stanchezza avvertita al termine dell’estenuante tour a supporto del disco di debutto e di cui la stessa band aveva parlato, questo è più simile a una scelta di campo non dettata da fattori esterni o da esperienze di varia natura. Pur riuscendo a conferire un rinnovato senso di freschezza alla propria scrittura, non è detto che la strada migliore da battere sia questa: gli Shame ritrovano solamente a sprazzi l’urgenza e la solidità dei momenti migliori, con qualche passaggio non del tutto a fuoco e un vago senso di normalità che non rende onore a quello che è parso essere il vero potenziale della band.
67/100
(Piergiuseppe Lippolis)