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Questa è la storia di una ragazza scozzese classe ’69 che ha forgiato la musica pop a cavallo di due secoli diventando protagonista assoluta dei miei ascolti, colpevole il ritrovamento dell’esordio “Afterglow” tra gli scaffali del fiorentino Contempo: alzi la mano chi (non) si ricorda di Dot Allison.
Nel 1991 fonda i One Dove con Ian Carmichael (oggi produttore degli Orchids) e Jim McKinven (ex-Altered Images), entrambi a tastiera e elettroniche; nello stesso anno conosce a Rimini (!!!) Andrew Weatherall che si proporrà di aiutarli nella creazione dell’LP “Morning Dove White”, che vede la luce nel 1993 grazie alla London Records. Non sarà l’unico grosso nome sulla strada del trio, visto che a loro si interessano anche i produttori William Orbit, Stephen Hague, Hugo Nicholson; nel disco suonano inoltre Andrew Innes dei Primal Scream e Jah Wobble dei P.I.L. In un mood prevalentemente downtempo si stagliano ritmiche ambient-techno e melodie trip-hop con la voce di Dorothy già originale e fascinosa. Gli estratti “Fallen”, “Breakdown” e “White Love” si posizioneranno per breve tempo in cima alle classifiche inglesi, onda lunga dell’effetto “Screamadelica” e del baggy sound ma forse troppo solari per il pubblico dei Massive Attack. Disco comunque da riscoprire tra la sperimentazione dark in “Transient Truth” e il funk liquido di “Sirens”: ne escono penalizzate le chitarre di Dorothy che bisognosa di maggiore indipendenza lascia terminare l’avventura nel 1996 – con inediti ma pubblicati – senza rinnegarla, come vedremo poi.
“Afterglow” del 1999 (Heavenly) è di tutt’altra pasta, o meglio dire varietà. “Colour Me” inizia lenta ma sexy come poche altre performance nel filone trip-hop, guidata dal basso di Mani degli Stone Roses e strumenti barocchi come il clavicembalo. “Tomorrow Never Comes” emoziona in un tappeto acustico con sprazzi di stelle, dove “Morning Sun” è più sperimentale e da viaggio a richiamare “Where Do I Begin” dei Chemical Brothers feat. Beth Orton. “Message Personnel” vede la presenza di Kevin Shields e nei suoi quasi sette minuti ti intrappola in un sogno proprio come i MBV di “Loveless”. I singoli “Close your Eyes” e “Mo’ Pop” sono invece nineties allo stato puro, la seconda (pericolosamente) simile a “High” dei Lighthouse Family (1997) con la differenza che non mi stancherei mai di ascoltarla – il bridge in francese, l’andamento orchestrale e gioioso, la primavera in cazzeggio a Londra per lei che è di Edinburgo. Tutto perfetto.
Come lo è in altre vesti “We Are Science” del 2002 (Mantra Recordings), dove questa volta è Dot ad arrivare prima di Goldfrapp e Ladytron nell’utilizzo di trame elettroniche vicine a Human League, New Order e Kraftwerk. Successivamente alla partecipazione in “Dirge” dei Death In Vegas (UK #24, 1999), Dorothy intuisce che il momento è favorevole per rilasciare alcuni dei brani più diretti della carriera come l’instant chorus di “I Think I Love You”, “Substance” (amplificata dal portentoso remix di Felix DaHousecat) e una “Strung Out” da vertigini (#67 UK). Quando il disco rallenta entrano la spazialità degli Air (“You Can Be Replaced”) e la new-wave robotica dei primi Ultravox (“Make It Happen”); a co-produrlo David Fridmann e Tenniswood che garantiscono qualità e l’afflato rock caro alla Allison, con “Hex” a metà tra i Garbage e Pj Harvey.
Arriva poi il momento del nostro (inconsapevole) incontro, in occasione dell’Heineken Jammin’ Festival 2004 svoltosi a Imola. Ci sono volute varie ricerche e uno sforzo mnemonico però lei cantava con i Massive Attack quella sera, come confermano le foto sul loro fansite e un vecchio articolo di Kataweb: “Il concerto è un lungo mantra, una sequenza circolare, quasi modale, in cui all’elettronica fa da contrappunto un uso sonico, distorto e viscerale della chitarra elettrica e del basso, mentre la batteria rende il sound più umano. Ai microfoni è un susseguirsi di voci, timbri e razze. Robert Del Naja appare e scompare dalla scena, apparizioni e sparizioni tra le accecanti luci del palco. E se Robert si dilegua, ecco il glorioso toaster Horace Andy, la bionda Dot Allison. “Karmacoma”, “Teardrop” e “Protection” i momenti di maggior coinvolgimento band-pubblico”. Esaurito l’impegno con il duo di Bristol per il “100th Window” tour la bionda studia le mosse future…
Il terzo disco solista “Exaltation Of Larks” (Cooking Vinyl, 2007) mostra un decisivo cambio di rotta: non mancano le atmosfere alla Bacharach di “Afterglow” o qualche puntata al sound degli albori nell’esoterica “Tall Flowers”, però i riferimenti ora vanno tanto su Joni Mitchell (“Sunset”) quanto sui Tindersticks (“You Dropped Your Soul”) con un folk bucolico che lo lega a doppio filo con il disco del ritorno del 2021 “Heart-Shaped Scars” per SA Recordings, quello più permeato di consapevolezza e maturità – nel frattempo Dorothy sposerà Christian Henson, compositore di soundtrack per la televisione, mettendo su famiglia e vincendo la dipendenza dall’alcool. Un lavoro sulla bellezza fuggevole della vita (“Forever’s Not Much Time”) con l’impegno verso l’ambiente (“Can You Hear Nature Sing?”) testimoniato da numerosi field recordings, dove i nuovi collaboratori portano il nome di Fiona Cruickshank e Hannah Peel e la dedica è tutta per Andrew Weatherall, scomparso nel 2020. “Exaltation” vede invece al desk nientemeno che Kramer, storico producer di Galaxie 500 e Low: il suo trattamento eccessivamente invasivo lo rende a mio giudizio il meno riuscito tra i dischi della Allison, pur contenendo una gemma assoluta quale è “Thief Of Me”.
L’ultima vetta Dorothy la raggiunge con “Room 7 1/2”, il più stimolante e profondo dei suoi lavori dove spiccano le canzoni interpretate a fianco di Pete Doherty dei Libertines (“I Wanna Break Your Heart”, garage-pop da dancefloor) e Paul Weller (“Love’s Got Me Crazy”). Con Peter nello specifico nasce un’intesa artistica che la porterà a dividere i palchi in numerosi gigs da membro aggiunto dei Babyshambles, scrivendo per l’esordio solista di Doherty “Grace/Wastelands”, “Sheepskin Tearaway” (formazione della vita completata da Graham Coxon alla chitarra). L’aspetto che mi fa preferire “Room” a “Afterglow” o “We Are Science” è la sua tempistica: esce infatti quando Dot ha appena compiuto quarant’anni, la mia età di oggi, ponendosi a spartiacque della nostra stessa esistenza. A metà via tra “We Are Free” di Cat Power e “Two Sides To Every Story” di Gene Clark il disco del 2009 coinvolge Rob Ellis (Bat For Lashes, Scott Walker) e James Johnston dei Gallon Drunk, oltre a Mick Harvey e il sassofonista Terry Edwards dal lunghissimo curriculum; “Montague Terrace (in blue)” è una cover proprio di Scott Walker. Ballate pianistiche da gustare al tramonto come “Fall To Me” o una title track dalle movenze noir: a voi la scelta. A me manca invece di scoprire se la firma sulla copia in cd che ho recuperato di “Room 7 1/2” sia proprio di Dot Allison.
In calce una playlist di brani fondamentali, spero vi conquistino come hanno fatto con il sottoscritto.
“Like A Portrait Of The Sun
Gazing Down Upon Our Flower
If It’s Left To Us
The Rain Becomes The Only Hour”
Dot Hallison/Peter Doherty, 2009