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“Cento anni di musica country” – Federico Romagnoli, Arcana, Roma, 2022.
Quanto siano complicati gli Stati Uniti lo sappiamo, la loro è una storia ingarbugliata, contraddittoria, mai definita una volta per tutte.
In un saggio uscito qualche anno fa, lo storico Luca Giannelli si chiedeva come avesse fatto questa nazione “che voleva vendere macchine da cucire (cit.) e abitare la casa nella prateria a dismettere i panni del cowboy solitario per proporsi a guida del mondo occidentale in campo artistico e politico”.
L’America rurale e le grandi metropoli, il populismo violento e la finanza internazionale, il sogno americano e la segregazione; per Giannelli era il conflitto tra queste due anime a caratterizzare la storia del paese, non è un caso che il titolo del libro fosse America contro America.
La musica, da questo punto di vista, è una chiave di lettura che può venirci in soccorso, un grande contenitore in cui le tensioni sociali, le dinamiche di potere, le lotte dei singoli come quelle collettive possono essere meglio comprese.
“All’inizio del Novecento l’America contadina era un calderone di musicisti bianchi e neri che si erano contaminati a vicenda, suonando gli stessi strumenti”.
Nel solco di queste parole introduttive, contenute nel pregevole volume dedicato alla musica country di recente edito per Arcana ad opera di Federico Romagnoli (“Cento anni di musica Country”), le opinioni preconfezionate, inscalfibili per sua patologica natura, iniziano a vacillare e inducono piuttosto a pensare che nessun genere possa mai dirsi veramente puro.
Se c’è un merito di questo libro, è proprio quello di liberarci da alcuni luoghi comuni, veri e propri stereotipi, che impediscono la piena comprensione di un fenomeno, per motivi diversi, più sfaccettato di quanto si pensi.
“Gli Stati Uniti sono infatti una nazione di immigrati, che si sono trascinati dietro una gran quantità di canzoni e tradizioni delle proprie zone d’origine. Da inglesi, scozzesi e irlandesi hanno importato la musica celtica, balli come la giga, nonché uno strumento quale il fiddle (il violino della musica folk). Dall’area germanica dell’Europa provennero la polka e la tecnica vocale dello jodel. Dalla Francia la fisarmonica, poi divenuta centrale nella musica dell’etnia cajun, stanziata nella Louisiana”.
È dalla Georgia che prende le mosse un tale, dapprima impiegato nei campi di cotone poi diventato artista di strada improvvisato, di nome Fiddlin’ John Carson, talmente in gamba con il fiddle che ad accorgersi di lui sarà il grande discografico e talent scout Ralph Peer.
“Il 19 giugno del 1923 Carson registrò due canzoni (The Little Old Log Cabin in the Lane e The Old Hen Cackled and the Rooster’s Going to Crow), che uscirono su disco in una tiratura nazionale di sole cinquecento copie: Peer era rimasto deluso dalla qualità della registrazione e non volle rischiare. Le cinquecento copie andarono però subito esaurite e lo stesso accadde alle ulteriori mille stampate poco dopo: Peer si convinse così che ci fosse una nicchia di mercato anche per quella musica”.
La sua biografia, altresì, racconta di un aperto antisemitismo, peccato originale e causa dell’ostracismo di molta critica; per questo motivo gli viene preferito il violinista Erik Robertson, giunto dall’Arkansas, il quale proprio nel 1922 pubblica un 78 giri (contenente due brani: Sallie Gooden e Arkansaw Traveler) convenzionalmente riconosciuto come prima testimonianza della musica country o, come veniva chiamata agli inizi, old-time music.
La rivoluzione vera e propria, intesa come esplosione commerciale, si compì nel 1927 a Bristol, in Tennessee, in un palazzo della Victor Records, dove incisero musicisti quali la Carter Family, composta dalle cugine Sara e Maybelle e saltuariamente dal marito della prima, Alvin Pleasant, e Jimmy Rodgers, iniziatore di un country più contaminato.
Nella prima parte del libro, densa di informazioni e utile a chiarire le innumerevoli ramificazioni del genere, troviamo la trattazione di alcuni nodi tematici assai interessanti per inquadrare una musica di cui continuiamo a sapere troppo poco; per esempio, a partire dalle riflessioni del sociologo Richard A. Peterson che ha dedicato diversi studi a riguardo, la controversa questione legata alla cosiddetta “autenticità” del country, musica popolare e per ciò stesso “vera”, in netta contrapposizione al pop, artefatto e costruito.
“Il problema è che, se si parla di civiltà moderne, l’autenticità non può esistere in alcun campo artistico. Anche l’artista più sincero, volendo lasciare segno del proprio passaggio, sarà costretto a incidere la propria musica: il che significa arrangiarla, produrla, distribuirla e quando possibile eseguirla dal vivo. Ognuna di queste fasi comprende una serie di compromessi: con i tecnici del suono, i produttori, i manager, le case discografiche, gli organizzatori degli eventi, e via dicendo”.
Saranno gli sponsor a dettare ben presto le proprie regole: specialmente nel caso dei network radiofonici, finanziati dalle acque lassative “Crazy Waters Crystals”, e il programma Grand Ole Opry (in onda ancora oggi) ideato da George D. Hay, il quale “pretese un controllo assoluto sull’immagine dei partecipanti allo show, cercando di creare un ambiente il più possibile basato sui valori di facciata delle famiglie delle comunità rurali”.
Immagine non sempre così autentica, a dire il vero: Hank Williams, forse la più grande star che il country abbia mai avuto, divenne famoso come ragazzo della porta accanto, con il sorriso rassicurante e il viso sempre tirato a lucido, la cui vita, a dispetto di quell’immagine preconfezionata, si interruppe il 1° gennaio 1953 a causa di un micidiale mix di alcol e famarci.
Un altro dei nodi irrisolti riguarda la rappresentazione del country in quanto genere chiuso culturalmente, misogino e fin troppo compromesso con il razzismo di molti suoi interpreti.
In questo senso è interessante il ruolo giocato dal magnate e grande industriale Henry Ford, fondatore della Ford Motor Company, che si dimostrò un grande sostenitore “delle musiche dei propri antenati, con particolare attenzione per le tradizioni degli appalachi e del New England, rigorosamente bianche”.
Non era un mistero che Ford nutrisse una profonda avversione per il jazz, considerata musica degenerata ad opera di neri ed ebrei, e fu proprio per questo motivo che si diede a pubblicizzare eventi e luoghi affinché ci fossero le condizioni migliori per diffondere il più possibile il country.
Il coinvolgimento di Ford, pur riconoscendogli un ruolo importante in questa storia, tuttavia durò pochi anni, e non fu certo lui a imprimere lo stigma razziale sull’intera scena, se è vero che in questa direzione si mossero con particolare sollecitudine sia le case discografiche che i network radiofonici.
La quasi totale assenza di musicisti neri country, così come delle interpreti femminili, fatta eccezione per alcuni nomi che lo stesso Romagnoli riporta, tuttavia non deve sfociare in una delegittimazione complessiva del genere in quanto parte strutturale di molte tradizioni musicali provenienti dal basso.
“Questo non significa ovviamente non condannare le storture del country: la scarsa presenza di donne e neri è un problema che lo accomuna a molti altri territori della musica popolare e che va risolto dall’interno, anziché gettando un’ombra negativa sul suo universo. Nel frattempo, nella speranza che si attribuisca il giusto peso a chi sta cercando di apportare questi cambiamenti, è bene ricordare anche quanto di positivo il country ha saputo dare alla cultura americana: ossia, spazio e voce agli ultimi elementi della scala sociale, né più né meno di quanto fatto dall’hip pop.”
Lasciamo alle lettrici e ai lettori il compito di inoltrarsi nella parte centrale del libro (quella più consistente) composta da un elenco dettagliato fatto di brevi schede monografiche di cento artisti fondamentali, da Vernon Dalhart a Patsy Cline, da Johnny Cash ai più recenti Chris Stapleton e Sturgill Simpson, con un capitoletto dedicato ai cosiddetti “esclusi”, cioè coloro che non sono rientrati nella lista, e un glossario altrettanto prezioso a chiudere il volume.
Harlan Perry Howard, musicista e grande songwriter, cantava che “la musica country è tre corde e la verità”: riemersi da queste pagine iniziamo a capire cosa intendesse dire.
(Alberto Scuderi)
Questo articolo appare anche su Astermagazine, per reciproca volontà degli autori ed editori.