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La scorsa settimana sono stata colpita, io come molti, dalla dipartita del compositore giapponese Ryūichi Sakamoto. La figura di Sakamoto è quella di un fortilizio nel panorama culturale del Giappone postbellico, ben lanciato verso il progresso tecnologico in campo musicale e con uno sguardo attento alle avanguardie del vecchio continente (e lo spiega benissimo Julian Cope in “JAPROCKSAMPLER”, che dopo due disamine storiche sulla musica di frontiera fra gli anni ’60 e ‘70 in Giappone e Germania vorrei tanto avesse completato questa sorta di trilogia dell’Asse con un progetto italiano). Come si è ricordato negli ultimi giorni, la Storia ci ha giustamente consegnato un’immagine pioneristica del suo lavoro con la Yellow Magic Orchestra collegata alla sperimentazione con i sintetizzatori, le drum machine e i sequenziatori. Il loro ruolo è stato quello di una spalla extraeuropea nell’invenzione della techno: la controparte emotiva, gioiosa e ibrida all’approccio concettuale e teutonico dei Kraftwerk. Difatti, la Yellow Magic Orchestra ha attinto un po’ da tutto, dalla musica europea avanguardista alla musica classica (Sakamoto era una persona estremamente intellettuale, tanto da essere riconosciuto come il “professore” del gruppo), dal pop al krautrock. “È come una bento box”, ha detto in un’intervista Sakamoto.
Un esempio fra tutti è “BGM”, il quarto album del trio uscito nel 1981 che è annoverato fra i primi utilizzi del Roland TR-808, drum machine pilastro per l’hip hop e l’acid house che verranno. O ancora, qualche anno prima “Technodelic” (1978) faceva entrare nel suo ecosistema sonoro il primo prototipo del digital sampler, il LMD-649, costruito appositamente per loro da un ingegnere della Toshiba, campionando canti indonesiani, tracce vocali e suoni di orchestre gamelan. Anche se non l’hanno inventata e non sono considerati fra i pionieri del genere, tra le tante cose, possiamo dire che la Yellow Music Orchestra era sul pezzo per quanto riguarda i discorsi all’epoca intorno alla world music. O comunque non meno dei Talking Heads o chi per loro si facesse promotore dell’inclusione di suoni “etnici” in musica canonicamente considerata occidentale.
Nel frattempo, Sakamoto è riuscito a portare avanti un ugualmente straordinaria carriera da solista. Exempli gratia, il suo secondo album “B-2 Unit”, uscito nel 1980, è stata una planimetria pazzesca per l’elettronica “idilliaca” che seguirà negli anni ’90 (Aphex Twin, Boards of Canada, Mouse on Mars). Contro le critiche che definivano la musica elettronica all’epoca un genere freddo e distaccato, “B-2 Unit” è un lavoro prettamente emotivo e lo è senza abbandonare la patina “futuristica” in linea con le narrazioni ideologiche del miracolo economico giapponese tipica di quello stampo musicale.
E poi, of course, le collaborazioni, troppe da menzionare dettagliatamente, ma una su tutte quella con David Sylvian. Dopo lo scioglimento dei Yellow Music Orchestra verso la metà degli anni ’80 Sakamoto intraprese una serie di progetti in esplorazione di una pletora di generi musicali che vanno dal prog rock, all’ambient, alla musica classica contemporanea fino alla bossa nova. Da questi incontri, dalla tragedia dell’11 Settembre a New York, città nella quale Sakamoto all’epoca risiedeva, e soprattutto dalla conseguente guerra in Iraq da parte della presidenza Bush nasce il concetto di “chain music” come terapia e che definisce la composizione musicale come un processo collettivo, continuo e cumulativo:
“In March 2003, when the US invaded Iraq, I felt that I had to advocate peace over war, so I started this little web project. The idea is to chain musical pieces from one artist to another, like a chain letter. The purpose is to musically mark the passage of time that Iraq is in a state of war, to mark the steps to peace, to take each day that there is war and build a musical memorial to the desire for peace as well as to mark off the time of war. There are no rules how to contribute musically, except that the contributor must not eliminate any of the existing music as he or she adds to it, because the existing music is the result of the artistic contribution of the other artists.”
Il brano che mi ha introdotto ai lavori di Sakamoto è un precipitato di queste pratiche di fare musica ed è “World Citizen (I Won’t Be Disappointed)” (2003), co-scritto e prodotto con David Sylvian. “World Citizen” è stata composta come canzone di protesta, ma il risultato finale allude più a una sorta di lamento, tanto da portare il The Guardian a definire Sakamoto “il figliol prodigo più volubile della musica pop” nel recensire il pezzo. La cosa interessante è che la composizione della canzone si è sviluppata per cladogenesi: un brano musicale ha seguito una traiettoria elettronica, in linea con quello che le persone potrebbero percepire come il tipo di territorio di composizione dei Yellow Music Orchestra, l’altro pezzo invece è più basato sul rock e il grunge (mi verrebbe da dire, anche un po’ più in linea alla tradizione della musica di protesta rispetto al primo). Il suo pop distorto, i clicchettii elettronici di Sakamoto, la voce profonda e i testi olistici di Sylvian rendono l’ascoltatore estremamente vulnerabile, ed è quasi impossibile non pensarci adesso. Arrivederci, world citizen.
Why can’t we be without beginning, without end?
(Viviana D’Alessandro)