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Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti è un film molto stratificato, modulare, multiconcettuale, in definitiva un ipertesto che, partendo dalle sue idee sul Cinema, tocca i rapporti umani, la società, la storia, la politica.
Per poterlo analizzare, in una critica che sia il più possibile aderente ai suoi contenuti anche più nascosti, è necessario sfogliare il film come fosse una cipolla, strato dopo strato (le tuniche), per capirne il senso compiuto.
Ma la cipolla è anche simbolo di lacrime e dispiacere (dolore ed incomprensioni) e Moretti ormai più che pessimista sul Cinema e la vita che sono e che verranno, ha però voluto cambiare il finale con una liberatoria marcia trionfale.
La scelta di questo finale consolatorio si basa sull’espediente storico narrativo di applicare, non il revisionismo di moda, ma una sua teorica del se, cioè se momenti della nostra storia e della nostra vita si fossero svolti in un altro modo non ci troveremmo a questo punto.
Intanto, c’è da riconoscere la coerenza di questo autore, che da sempre, attraverso il suo alter ego, figlio dei tempi (Michele, Nanni o Giovanni) ha manifestato e sottolineato (anche facendo ridere gli spettatori) quello che c’era di sbagliato nei suoi/nostri comportamenti.
Partiamo con lo spogliare il film della parte politica. Giovanni (Nanni Moretti) è un regista che sta girando un film sui fatti d’Ungheria del 1956, l’invasione dei carri armati russi per soffocare i movimenti libertari ungheresi. Ciò attraverso la figura di un giornalista del quotidiano “L’Unità”, segretario della sezione del PCI di una borgata romana (Silvio Orlando), che in quei giorni ha invitato nel quartiere un circo ungherese.
Accantoniamo il discorso sul film nel film (metafilm), espediente usato di recente anche da Gabriele Salvatores ne Il ritorno di Casanova, e da A. Gonzales Inarritu in Bardo. La cronaca falsa di alcune verità, che si richiamano al famoso 8 e 1/2 di Federico Fellini.
Altro velo di cipolla da sfogliare sono i rapporti conflittuali tra il regista Giovanni e la moglie Paola (Margherita Buy), che dopo tanti anni insieme sono in crisi di coppia e vedono con sorpresa la giovane figlia (Valentina Romani) fidanzarsi con un vecchio diplomatico polacco (Jerzy Stuhr). Mentre anche i due protagonisti del film del 1956 si contrappongono sulla posizione da tenere sui fatti d’Ungheria. Lui allineato alla posizione filosovietica di Togliatti e del PCI, lei (Barbora Bobulova) con i movimenti di liberazione ungherese.
La terza coppia, due giovanissimi in schermaglie amorose, sono in realtà nei sogni ad occhi aperti del regista Giovanni che vorrebbe realizzare una storia d’amore nel tempo con tante canzoni italiane.
Ma mentre alcune scene sono solo immaginate da Giovanni, le canzoni italiane vanno invece ad arricchire il film che sta girando (Sono solo Parole di Noemi, Voglio vederti danzare di Franco Battiato, Think di Aretha Franklyn, Lontano lontano di Luigi Tenco, La canzone dell’amore perduto di Fabrizio De André).
Un altro velo di cipolla è ancora la sceneggiatura che Giovanni sta traendo da Il nuotatore di Cheever.
In questo condensato di idee che si intersecano e si mescolano nella modularità del film non mancano gags divertenti e considerazioni personali di Moretti regista sulla società che viviamo.
Ma il vero nucleo centrale (il girello) del film è il dispiegamento di tutta la sua cinefilia, il suo unico ed esclusivo amore per il cinema, gli autori preferiti, le reminiscenze, il modo di recitare, il valore delle sceneggiature, la deontologia del cineasta come fosse una missione sociale.
Il regista Moretti, come un Cristo che scaccia i mercanti dal tempio sacro del cinema si scaglia contro le derive estetico-morali, contro la recitazione improvvisata di che segue i registi falsi profeti, contro i processi decisionali delle piattaforme (un buffo incontro con Netflix), che scelgono il minuto, sempre lo stesso, in cui posizionare il turning point del film, rendendo tutto uguale e piatto, forti dei 190 paesi in cui vendono i film, contro i ricchi ma improvvisati produttori coreani, che impongono scelte di finali, convenzionali per il gusto dei propri spettatori, non conoscendo quello degli altri.
Contro i giovani registi di film o serie TV, di cui Paola produce i film, che Giovanni blocca per una notte perché seguono e pilotano le mode, il fascino della violenza metropolitana e del male fine a se stesso, senza avere un minimo di morale nella messa in scena. Chiamando a testimoniare a suo favore l’architetto Renzo Piano, la direttrice artistica Chiara Valerio, lo scrittore Corrado Augias e, per telefono, perfino Martin Scorsese.
Ed infine contro l’ignoranza che dilaga come intrattenimento.
Le sue citazioni cinematografiche: Lola di Jacques Demy con Anouk Aimèe, la scena finale del felliniano Dolce vita con Marcello Mastroianni e Valeria Ciangottini sulla spiaggia, le improvvisazioni di John Cassavetes, Non uccidere, brano del film Il decalogo di Kieslovski, Sogni d’oro dello stesso Moretti ed, infine, la circense parata finale (come in 8 e ½ di Fellini), in cui ha voluto non solo la troupe del film ma anche altri attori dei film precedenti. Con lui là in mezzo a tutti, senza sapere né stare da solo né insieme agli altri, né autarchico né sovversivo (come dice nel film).
E poi, ci sono gli aforismi “Come erano belle le idee di un altro tempo” con lui ad adattarsi a fare un Cinema che non sarà mai più il suo, sapendo di essere fuori tempo come tanti altri registi. “Viviamo in un incantesimo che poi finirà e tutti se ne renderanno conto”. Nanni Moretti: viva il Cinema che non esisterà più.
(Pino Moroni)
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