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Sembra passata una vita. Dodici anni fa, il 3 maggio 2011, usciva per Sub Pop “Helplessness Blues”, il secondo disco dei Fleet Foxes. L’esordio del 2008 era stato universalmente acclamato come un piccolo capolavoro e l’attesa per il secondo lavoro della band di Seattle era spasmodica.
La redazione di Kalporz ne celebrò l’uscita con la recensione cosmica di Francesco Giordani e con un approfondimento a mente fredda, per valutarne l’impatto – ancora fortissimo – nei mesi successivi. Tra “Helplessness Blues” e il disco successivo, “Crack-Up”, passarono sei anni, ed è innegabile che il clamore intorno alla band si era ormai diluito. Nel mentre, il leader e autore della band, Robin Pecknold, aveva deciso di intraprendere gli studi universitari, iscrivendosi alla Columbia per avere un assaggio di vita “normale”. L’ex batterista Josh Tillman, dopo aver lasciato il gruppo tra le polemiche, era diventato l’acclamato cantautore e showman Father John Misty. “Crack-Up” fu accolto positivamente dalla critica, ma si può dire in tutta onestà che la sua popolarità non fu paragonabile a quella dei due album precedenti. L’ultimo lavoro, “The Shore”, uscito nel 2020, poteva contare su qualche freccia in più nel proprio arco, ed ha goduto di un eco maggiore del predecessore. Ma nel frattempo era cambiato tutto.
Oggi i gusti del pubblico abbracciano generi che con l’indie-folk hanno poco da spartire; l’hype è tutto per artisti che riescano a catturare lo spirito del tempo non solo dal punto di vista musicale, ma anche (e soprattutto?) da quello culturale. Nel 2023 c’è poco spazio per barbe lunghe, camicie a quadri, paesaggi rurali, foreste e cascate, per ballate in falsetto e arpeggi acustici a sei corde. E forse va bene così.
Cosa resta allora oggi di “Helplessness Blues”? Tantissimo, a dire il vero. Quello che Pecknold e soci riuscirono a fare con il loro secondo album, nonostante una lavorazione a dir poco tormentata, ha dell’incredibile. Nella sua recensione Giordani parlava di un’unica lunga canzone, senza inizio né fine. Non è forse questo il traguardo più grande di un’opera d’arte in senso lato? Quello di poter essere, borgesianamente parlando, eternamente ripercorribile, esplorabile senza badare a quale sia il punto di partenza o di arrivo. Non è un caso che tuttora a chi scrive risulti difficile ricordare i nomi dei singoli brani. Se, tuttavia, è concesso avere delle preferenze e scegliere una traccia che possa raccontare da sola l’intera opera, allora non può che essere “Helplessness Blues”. La canzone che dà il titolo all’album è, come dire, la perfezione. La summa degli sforzi di un’intera generazione di musicisti americani (vedasi il discorso aperto qui) di catturare l’essenza di un genere antico come il folk e di reinterpretarlo in chiave contemporanea. Ma “Helplessnes Blues” è molto di più, è un peana senza tempo che prende vita da dubbi esistenziali così comuni tra i millennials, generazione di cui lo stesso Pecknold fa parte, per arrivare alla catarsi, solo immaginata, del bucolico finale. Cosa c’è di più contemporaneo di sognare di gestire un frutteto, lavorandolo ogni giorno con il sudore della propria fronte, insieme alla persona che si ama?
Inutile dire che in questi tempi oscuri dominati da un realismo capitalista, per citare il compianto Mark Fisher, che ci sembra insormontabile, è un desiderio che è apparso nei cuori di molti. E per qualcuno si è pure avverato, vedi il fenomeno della Great Resignation. I Fleet Foxes ci avevano visto lungo quindi. Ma forse è solo lasciando da parte ragionamenti arzigogolati come questo, ed affidarci al solo potere di parole e musica che potremo riscoprire la vera magia di “Helplessness Blues”.
“If I know only one thing,
It’s that everything that I see
Of the world outside is so inconceivable
Often I barely can speak”