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Mega Bog è lo sfaccettato progetto artistico di Erin Birgy che qui approda alla settima pubblicazione sotto questo nome. Stavolta, ad accompagnare l’album non ci sono solo i video che la vedono sempre protagonista ma c’è anche un libro di poesie (“The Practice Of Hell Ending”) che esce così, in parallelo e a mo’ d’integrazione. Questo per sottolineare la multidisciplinarietà del progetto e della persona che lo tiene in piedi. Erin è un personaggio complesso, una figura un po’ aliena e un po’ gotica, ferita, istintiva e perennemente in viaggio. Ha una strana storia, anzi, viene da usare il plurale: le sue storie sono dolorose, altre scioccanti, altre curiose. Come le storie che scrive, che canta, che sussurra. A questo proposito si cita spesso la sua infanzia nei ranch e negli ambienti un po’ surreali dei rodeo itineranti.
E questo nuovo album rappresenta in una certa misura una discontinuità, magari non per i toni che si mantengono comunque (a partire dal titolo) su standard semiapocalittici e neanche per la scrittura crepuscolare ma verosimilmente per i suoni. A differenza delle passate produzioni sono i sintetizzatori a stare in prima linea. Viene spesso meno (specie nella “prima facciata”) l’approccio chamber pop, così come quello acustico. La scelta non compromette l’integrità del contenuto, non limita le spigolosità, non rende la materia meno inquietante del solito ma le conferisce (questo probabilmente sì) un’accessibilità un filo più maneggevole. Di certo c’è una distanza ben osservabile rispetto al penultimo “Life, And Another” del 2021.
“End Of Everything” è il primo album che esce su Mexican Summer e se è vero il parziale venir meno di qualche denso sperimentalismo artpop, il lavoro si avvale comunque della collaborazione di quei musicisti a lungo associabili al nome Mega Bog: in primis parliamo di James Krivchenia, il batterista dei Big Thief. E la continuità più grande è rappresentata evidentemente dell’approccio vocale di Erin Birgy che, grazie al cielo, sa essere contemporaneamente tanto teatrale quanto (mi si perdoni) “svogliata”. Insomma, riesce a essere impostata e consapevole nel medesimo istante in cui lo stesso cantato sembra buttato un po’ via e unfinished (all’apparenza soltanto, eh!). E non è affatto banale questa cosa, come nulla poi è banale in un disco di Mega Bog.
Vogliamo forse parlare della sua smodata passione per i cactus? C’è la traccia d’apertura che ha a che fare con questo (“Cactus People”) e non è l’unica. “The Clown”, primo singolo sembra disporre cocci da ri-incollare su un tappeto sintetico fatto di stop and go. E poi “Love Is” chiude il trittico d’apertura in un crescendo mistico: parte da “una cover di una cover” di un gruppo punk (i Dragons) del giro di Erin. La rilettura intermedia era stata fatta dei Dogbreth, altra rock band indipendente. Oggi quella canzone è stata ripescata per darle una veste ancora nuova, in una magnifica intersezione tra l’italo disco, l’amore (dichiarato) per Battiato, la lucentezza che questa artista così scura si porta dentro. Se nelle altre prove Mega Bog mi suscitava indiretti rimandi a Destroyer, agli Sparks, o ad una Marlene Dietrich dell’ovest americano, stavolta il suo mondo si allarga e invade ancora altri scenari di bellezza inaudita. “End Of Everything” è una spirale veloce in cui sembra di riconoscere ancora altri volti, tutti bellissimi come quelli di Siouxsie, della nostra Alice o della Debbie Harry più ferina.
82/100
Marco Bachini
*Immagine in evidenza di Jasper McMahon