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Per la prima volta nella sua storia che è entrata ormai nel terzo decennio, il Primavera Sound non solo non ha ampliato gli spazi all’interno del Parc del Forum che ospita il festival dalla seconda edizione, ma ha addirittura ridimensionato l’area calpestabile, e di conseguenza la capienza.
La scelta non è stata dettata dalle polemiche sullo scioccante day 1 del 2022 quando un’affluenza sopra le aspettative nelle prime ore di festival e alcune problematiche negli staff dei bar legati alle quarantene avevano reso invivibile uno dei contesti più “safe” e vivibili d’Europa. Del resto questi problemi erano stati risolti dopo poche ore grazie a una macchina organizzativa che raramente ha mostrato intoppi, che poi è anche uno dei motivi per cui il minimo problema o disservizio in un contesto del genere fa notizia mentre da noi solitamente fa notizia il contrario.
L’area in spiaggia che era diventata famosa come Bits e inizialmente destinata ad act ballabili, a causa delle distanze rese infinite per via dell’inagibilità dell’odiato e interminale ponte, aveva faticosamente assorbito flussi di persone tali da rendere meno affollata l’area principale. Per il 2023 non è stata presa in considerazione, anche in virtù del fatto che trovandosi in un altro comune, Sant Adrià de Besòs, non c’è mai stata una burocrazia agevole. Per lo stesso motivo legato a permessi e concessioni il secondo weekend gemello, non è stato riproposto, malgrado i record di numeri dello scorso anno, nella capitale catalana, ma in quella spagnola.
E così mentre il brand Primavera Sound diventa sempre più globale con varie date in capitali e metropoli sudamericane, si sdoppia in un’edizione gemella, quella di una settimana dopo a Madrid (biglietti e abbonamenti ancora disponibili) e conferma per il decimo anno l’edizione “in chiave minore” a Porto, a Barcelona recupera parallelamente una dimensione normalizzata.
Per fare dei numeri, che comunque sono tutt’altro che esigui, quest’anno 193mila persone si sono ritrovate al Parc del Forum nel weekend, mentre nel 2022 erano state registrate 220mila presenze nel primo e 240mila nel secondo, un dato abbastanza sorprendente visto che il secondo, per chi c’era, sembrava molto più “tranquillo” e vivibile del primo.
Presenze che diventano 250mila se si contano gli eventi di apertura e chiusura che in questa edizione hanno coinvolto solo tre venue, le due sale dell’Apolo e il dirimpettaio Parallel (da ricordare la chiusura molto old Primavera con Cloud Nothings, Gilla Band e i granitici Unwound), le due del Razzmatazz, oltre al regalo alla città del concertone gratuito – ma a capienza limitata – dei Pet Shop Boys, di mercoledì 31 al Parc del Forum. Rispetto alla tentacolare edizione nella ciutat, un itinerario abbastanza gestibile, reso più ordinato dalla possibilità di prenotare l’ingresso evitando sfiancanti e interminabili file per godersi live indoor, come quello, altrettanto memorabile e sbriluccicante degli stessi Pet Shop Boys in una venue più intima come lo storico Apolo.
Per parlare di nomi gli show che resteranno negli annali sono stati quelli di due artisti che non a caso hanno segnato due passaggi storici per il Primavera Sound: Kendrick Lamar che nel 2014 era stato il primo headliner lontano dal mondo indie e delle reunion e Rosalía che insieme a J Balvin era stata la prima headliner non anglofona, nel 2019, anticipando quel trend dove la musica globale non è più esclusivo appannaggio di quella lingua.
Kendrick Lamar rispetto al 2014 è diventato un personaggio che culturalmente va oltre il semplice ambito musicale, sul palco ha i suoi alter ego, i suoi spettri e i suoi cloni. Non ha più una band di turnisti sorridenti, relegata dietro le quinte, e pur con una scenografia più minimale rispetto all’ultimo tour e forse riadattata ai festival estivi, senza alcun bisogno di fuochi d’artificio tiene in piedi quasi un’ora e mezzo di flow incessante e di classici che ipnotizzano anche i meno affezionati. Tutto ciò che ci si aspetta da lui e qualche gradevole sorpresa: la sua prima hit A.D.H.D. dal mixtape d’esordio “section.80” o le cover di “Nosetalgia” di Pusha T (che non è salito sul palco e ha offerto nell’arena Cupra il solito show da professore del suo livello) e “Sidewalks” di The Weeknd, e i duetti, più telefonati nelle tracce collaborative “vent” e “family ties” con il talentuoso cugino Baby Keem che aveva gradevolmente stranito la platea pre-Depeche Mode qualche ora prima, così come la giovanissima ed educata platea pre-Kendrick Lamar ha capito costa stava ascoltando solo nel finale con “Enjoy The Silence”, “Just Can’t Get Enough” e “Personal Jesus”. Il bello del Primavera è sempre stato questo e succede da poche altre parti. A tal proposito, la band di Dave Gahan e Martin Gore ha regalato uno show da lectio magistralis del synth pop, ballabile, da greatest hit, ma quella patina di retrogusto dark sempre incombente. Segnato dalla recente scomparsa di Andy Fletcher i picchi emotivi hanno fatto trattenere le lacrime in “Home” e “World In My Eyes” con quel visual tributo al vecchio compagno d’avventure, davvero da brivido. Si dovrebbe dire la stessa cosa dei Blur che però non sono mai stati una band da stadio e si sente: classiconi, karaoke dei presenti, ma un approccio ruvido e da albori senza troppi fronzoli che ha inevitabilmente scontentato qualcuno. Ma obiettivamente era la cosa giusta da aspettarsi e va benissimo così.
Tornando all’altra regina del weekend, Rosalía, che è cresciuta dagli albori della sua carriera all’interno del Primavera come ha ricordato al microfon o, ha avuto il pregio di rendere democratico e accessibile a tutti un pop elegante e di qualità che nelle sue produzioni e nella contemporaneità dello show presentato sul palco. Non ci sono barriere di età e di estrazione sociale, dalla comunità LGBTQ+ ai vecchi fan del Primavera passando per bambini e famiglie, è il trionfo della musica di qualità che raggiunge tutti, divertendo e commuovendo nelle parti più intime, come “Hentai”, in parte rovinata dai volumi eccessivi del nuovo palco Pull & Bear e che il suo fonico ha fatto fatica a sovrastare. La nuova normalità ormai normalizzata. Superba.
Sul resto della sterminata line-up è stato detto di tutto, anche perché l’annuncio è arrivato più di sei mesi fa e a tutti gli effetti, per quello che si è visto nel Parc, come detto, istituzionalizza con successo quel coraggioso “new normal” che nel 2019 forzava comunicativamente l’abbattimento di ogni barriera di genere e sonorità, e abbraccia il claim “nobody is normal”, in scia con il secondo weekend del 2023, vagamente più giovanile e per i nostalgici del Primavera, leggermente più mainstream.
Nessuno è normale e niente è normale. L’età media dei presenti – 29 anni – riflette la varietà mai intaccata di proposte musicali che accontentano i più giovani forse in misura maggiore rispetto al passato, pur non togliendo spazio ai nomi da vecchio Primavera. Se durante i Måneskin e Calvin Harris – due tra i momenti meno Primavera della storia per tanti motivi socio-culturali – è possibile godersi l’assedio sonoro dei Liturgy (tra i momenti migliori della tre giorni), significa che il festival non è diventato il Coachella come qualcuno teme e comunque anche quest’anno per chi ha gusti eterogenei pesano molto di più le rinunce per le maledette sovrapposizioni rispetto ai buchi che si fanno sentire soltanto il sabato tra prima e seconda serata per la mancanza di headliner tali da raccogliere il giusto numero di persone nell’area dei palchi principali.
Un tempo tra le cose più emozionanti del festival c’era quella sensazione di straniante che si provava nel vedere insieme a decine di migliaia di persone dei nomi che dalle nostre parti raccoglievano briciole. Quell’epoca non esiste più e nomi come St. Vincent e The War On Drugs l’hanno dimostrato bene. E persino i Blur che nel 2013 furono uno dei primi momenti di assoluta bolgia della storia del Primavera, quest’anno erano piuttosto raggiungibili a pochi minuti dall’inizio, senza troppi affanni.
L’epoca dei concertoni nell’arena ex Rayban, ora Cupra, sembra essersi chiusa nel 2022 (con Idles, Little Simz e Dinosaur Jr.) e i due nuovi palchi all’ingresso (con due nuovi sponsor: Ron Brugal e Amazon, coraggiosamente attaccata su quel palco dai validissimi Wednesday) ne hanno limitato il numero di act lasciando spazio per lo più a nomi di minore portata, Darkside a parte che già all’Apolo 2 avevano regalato un viaggio psichedelico da ricordare.
Seguendo l’ordine giornaliero, nel percorso che abbiamo voluto seguire, tra le cose che hanno convinto di più, nella giornata uno i Turnstile hanno dato un flashback da vecchio Primavera nel palco Estrella con un live solido e incendiario, e molto partecipato e coinvolgente per chi non vedeva l’ora di pogare. La musica britannica ha mostrato, se ce ne fosse bisogno, tutta la sua freschezza più eclettica a partire dal nome più hype del giovedì PinkPantheress passando per la bravissima Self Esteem e il suo perfetto saggio di pop del nuovo decennio. E poi ancora l’icona UK rap Central Cee a saziare la voglia di hit dei giovani britannici, e il sofisticato Loyle Carner che ogni volta sembra diventare più maturo di una dozzina d’anni. Il nigeriano Rema ha regalato uno dei set più solari e divertenti in assoluto, Jana Rush con le sue schizofreniche trame footwork ha chiuso in bellezza il day 1 dell’unico palco indoor, la Warehouse di Stone Island co-curata da Club To Club e che ha dato un confortante rifugio da clubbing più avant e ricercato rispetto alla sempre affollatissima Boiler Room. Ci voleva davvero.
Per la chiusura delle chiusure si poteva scegliere e alternare la ricerca di Hudson Mohawke e lo stillicidio sonico di un altro nome hype nella nuova ondata di revival techno gabber che fa impazzire la Gen Z, i Brutalismus 3000. Da riprovare con qualche energia di riserva più.
Venerdì la scena, oltre ai già citati, era tutta per Fred Again che ormai è diventata una superstar dall’ascesa inarrestabile e da Skrillex, nonostante il principio di incendio a due testate mobili, che ha interrotto l’avvio più dance hall che techno che aveva preparato spiazzando la platea più Coachella già gasata più del dovuto da Fred. Ma nel nostro percorso porteremo a casa la straripante performance dei Soul Glo. Iconograficamente molto improbabili per essere tra i nuovi nomi più interessanti della scena hardcore indipendente, hanno preso letteralmente a ceffoni i non pochi presenti nonostante l’orario molto pomeridiano, più consono invece alle sinuose melodie di The Japanese Breakfast che ha vinto più che dignitosamente ogni timore da palco principale. Nel cuore della notte, per i più resistenti la programmazione The Warehouse, co-curata nel day 2 da PAN Records ha regalato l’oscuro set post-industriale di Tzusing, la jungle 3.0 di upsammy e il set finale del suo fondatore, Bill Kouligas. Chi c’era avrà visto comparire sul palco Yves Tumor (che con quella label ha mosso i suoi primi passi molto prima di diventare un nome che ha ridato speranze ai nostalgici del Primavera dopo il suo ingresso in Warp), dopo il non del tutto soddisfacente set al Cupra, disturbato da problemi tecnici alla voce.
Sabato, nella narrazione, doveva essere la serata più mainstream e partecipata. In parte come pubblico è stato così tra influencer, glitter, stivali e tiktoker che com’è giusto che sia spadroneggiano più che in passato. Tuttavia oltre ai nomi “coachella”, senz’altro non è mancato il divertimento puro senza barriere, esuberante e spontaneo nei set di Villano Antillano e Tokischa, (di cui è stato sottovalutato la portata e di conseguenza il palco Plenitude era pieno oltre ogni norma di sicurezza) quello a tratti più kitsch di Sevdaliza, quello del set molto rilassato e magnetico del nome clou dell’anno, Caroline Polachek, e quello più imprevedibilmente dnb di Nia Archives. Arlo Parks e Maggie Rogers hanno accompagnato il crepuscolo con classe e senza troppi scossoni, mentre Kelela, declassata nel palco Brugal, ha dovuto combattere contro problemi tecnici che ne hanno limitato lo show. Tra i pochi uomini visti nella scaletta personale del sabato, JPEGMAFIA ha vinto il premio dello show cazzeggio di tarda notte – come era del tutto prevedibile – il guru dell’underground dubstep di South London, Mala, ha messo a dura prova le fondamenta della Warehouse (nella giornata di chiusura curata dalla Hivern Discs di John Talabot) con un set da ricordare e gli Overmono, altro nome meritatamente hype, hanno regalato una chiusura da saggio e sintesi delle migliori sonorità elettroniche UK degli ultimi vent’anni dandoci idealmente appuntamento al prossimo anno dove probabilmente li vedremo su un palco più imponente.
Come sempre, il racconto del Primavera Sound risulterà parziale, personale e lacunoso, ma ciò di cui siamo certi è che in molte performance abbiamo trovato come sempre gli indizi e i prodromi di ciò che contribuirà all’evoluzione dell’identità di un festival che è molto cambiato dai primi anni Duemila a oggi ma che continua ad affascinare e far parlare di sé una platea varia e appassionata, come in nessun altro caso al mondo. E per fortuna in tutto ciò di scontato e normale non c’è veramente nulla.
Photo Credits: Christian Bertrand, Sharon Lopez, Eric Pamies – Primavera Sound