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Questa volta ci dedichiamo a un ThanksForAllTheFish! composto da album che avrebbero meritato recensioni singole, perché tutti belli e qualcuno veramente impressionante, ma – si sa – siamo immersi in un mondo veloce e alle volte ci dobbiamo adeguare. Per facilitare la scelta li mettiamo in ordine, dal migliore (i Death And Vanilla) al minore dei quattro (Gnoomes), che è comunque un gran bel disco.
DEATH AND VANILLA, “Fliker” (Fire Records, 2023)
credit Aron Lindhagen
I Death And Vanilla hanno messo tutta la loro cura e immaginazione psichedelica in questo loro “Fliker” dopo più un decennio di dischi (questo dovrebbe essere il sesto, se non erriamo in matematica, ma in ogni caso sul loro bandcamp ci sono anche ulteriori ep): si tratta di delicate divagazioni psichiche condite da un pop distinto ed elegante in cui la cerebralità e la dimensione del sogno (come nella bellissima “Baby Snakes”, una moderna “Riders on the storm”) viene stemperata in alcuni passaggi da una fisicità più asciutta (“Find Another Illusion”) che la band rimanda, come suggestione, “ai primi Cure”.
Il trio proviene da Malmoè, in Svezia, ed è formato dai musicisti Marleen Nilsson, Anders Hansson e Magnus Bodin che suonano con strumentazione vintage “per emulare le strutture e i magici suoni di colonne sonore e library music, krautorock tedesco e yèyè pop francese degli anni ’60 e ’70”.
Disco a mio parere fantastico, che sarà probabilmente nella mia classifica di fine anno.
Info album: https://www.firerecords.com/product/death-and-vanilla-flicker/
TREES SPEAK, “Mind Maze” (Soul Jazz Records, 2023)
Altro disco spettacolare è questo quinto dei Trees Speak, duo di Tucson (Arizona), composto da Daniel Martin Diaz e Damian Diaz che coniuga un gusto strumentale spiccatissimo dalle mille influenze con una assoluta godibilità di fondo. Le note stampa un po’ esagerano ma iniziano a dare delle coordinate: “Trees Speak è musica come traduzione cosmologica, prendendo in prestito dai Can e dalla pratica dell’epoca Bitches Brew di Miles Davis dello studio come strumento di composizione, in cui lunghe improvvisazioni si fondono in voli di fantasia indelebili con modifiche su nastro assistite da lame di rasoio. Trees Speak opera tra il subconscio e l’inconscio, il radiante e l’eclissi, il micro e il macro”.
Certamente c’entra il krautrock tedesco così come il duo attinge dalle colonne sonore degli anni ’60 e da un certo rock psichedelico libero e senza costrizioni con il cosmo quale destinazione: il deserto dell’Arizona quale universo dove approdare.
Personalmente ho due canzoni che mi sono annotato con il fazzoletto: “Syndrome” mi trasmette la stessa angoscia dei Massive Attack, mentre in “Sospetto” è evidente l’influenza delle colonne sonore italiane dei ’70 fin dal titolo e quella degli Air di “The Virgin Suicides” solo che la si ascolti.
Album anche questo incredibile.
WITCH, “Zango” (Desert Daze Sound, 2023)
Una storia alla Rodriguez: tra il 1972 e il ’77 gli Witch, band dello Zambia, fecero cinque album che uscirono solo in Zambia. Nel 2010 sono apparse ristampe in Europa e negli Stati Uniti: il misto di rock-fuzz africano dei Witch è piaciuto a tal punto che i fan hanno sostenuto le tournée di una nuova band che Jagari Chanda – l’unico superstite oggi 71enne – ha assemblato sei anni fa, composta principalmente da giovani musicisti europei.
La scorsa settimana è uscito il primo album degli Witch dopo quattro decenni e ci suona e lo ha prodotto Jacco Gardner, musicista olandese che amo e del quale solo qualche giorno fa mi lamentavo via social con i miei contatti della lunga assenza discografica (era stato avvistato in Portogallo nel 2018 con “Somnium“). Ed invece eccolo qua: si è unito ed ha prodotto l’album di questa band storica dello Zambia e il risultato è sorprendente. L’imprinting africano del gruppo esplode in un rock di base fuzz che è, come minimo, ultra-coinvolgente. Al leader Jagari Chanda si sono uniti i nuovi compagni di viaggio Patrick Mwondela, Nico Mauskoviç, Jacco Gardner, Charlie Garmendia, JJ Whitefield e Stefan Lilov.
Una storia e un disco da non farsi scappare.
GNOOMES, “Ax Ox” (Rocket Recordings, 2023)
Chi ha paura della psichedelia russa? La guerra ha eretto barricate che la musica non ha, per cui eccoci qui a consigliare questo quarto full-length della band che proviene da Perm che, dopo 3 album caratterizzati dal “punto esclamativo” (“MU!” del 2019, “Tschak!” del 2017 e “Ngan!” del 2015), lo toglie dal titolo quasi a normalizzare una proposta che normale non è. Per la prima volta innanzitutto il quartetto canta nella lingua madre, il russo, e – dall’inizio del conflitto con l’Ucraina – due dei membri sono fuggiti dalla Russia, il che fa capire l’approccio politico della band al di là di una scelta, quella di utilizzare questa volta il russo, che parrebbe piuttosto nazionalista.
Da un punto di vista musicale “Ax Ox” spinge su una direzione kraut elevata alle volte da battiti techno (“Loops”) o da intuizioni garage-dark (“The Neighbor”), oppure diminuita in sensazioni da oblò à la Boards Of Canada (“Mirror”).
Meno consigliato dei tre album qui sopra, ma pur sempre fuori dalle solite coordinate.
(Paolo Bardelli)