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La fine del pianeta in cui viviamo è forse prossima, ma è complicato inserire questa opzione anche solo nel nostro ordine di idee, anche se è tragicamente vicina, più di quanto molti di noi potrebbero pensare. Anohni ce lo ricorda con un disco che è più un punto della situazione nel day after la distruzione che una proposta di salvezza. Per farlo sceglie di avere al suo fianco la sua storica band a tredici anni dall’ultima volta, e già questo è un segnale rilevante.
Sette anni dopo il seminale e ambizioso Hopelessness, nel quale Anohni ricordava a tutti le pericolosità alle quali l’uomo – e non soltanto lui – sarebbe andato incontro a causa dell’aumento generale delle temperature terresti, il mondo non è cambiato poi granché: sotto molti aspetti, semmai, è addirittura peggiorato. Il clima che cambia sempre più rapidamente, le guerre nate e quelle che ancora arriveranno, una società sempre più sfilacciata, una povertà che incalza la maggior parte degli esseri umani, i diritti civili e sociali sotto attacco: la “musica di protesta” di Anohni ha sempre provato a fare i conti con tutto questo, non rifuggendo mai, anzi, abbracciando, le complessità del mondo.
Il soul malinconico e onirico e al tempo stesso così concreto e terreno che Anohni e i suoi compagni di viaggio creano in My Back Was a Bridge for You to Cross è un modo – un modo terribilmente onesto, e forse estremamente spiacevole – per fare i conti con quei problemi giganteschi, e lo fa adottando una visione sia globale sia privata e personale. La volontà di Anohni e del suo gruppo era quella di comporre un disco soul che parlasse del (e al) senso di disperazione e di perdita che ci attanaglia in quanto umani che deambulano in un mondo ormai ferito e devastato, un disco nel quale, tuttavia, l’angoscia non finisse per avere il sopravvento. Sono riusciti nell’intento.
Che da premesse di questo tipo non potesse che nascere un album ostico, variegato e di non semplice decifrazione era scontato. Nonostante ciò, Anohni e la sua band – che in questa sua ultima forma comprende Leo Abrahams, Samuel Dixon, Jimmy Hogarth, Rob Moose, Chris Vatalaro e vede il contributo aggiuntivo, in alcune tracce, di Martin Slattery e di William Basinski – affrontano questa inevitabile complessità con una diafanica e serafica sincerità. È come se attraverso le parole e le musiche di Anohni e dei suoi vedessimo le loro anime e le loro menti con una onestà e con una chiarezza rare. Riuscire a essere così manifestamente comprensibili alla luce dei temi complicati che l’opera affronta e così musicalmente lucenti nell’esplorare in modo attento e raffinato il mondo soul britannico e statunitense non era affatto cosa semplice.
Ottenuti magistralmente questi scopi, è ovviamente la qualità delle canzoni e delle singole performance a lasciare particolarmente soddisfatti. Quando l’idea alla base del lavoro è “to make a ‘blue-eyed soul’ record”, cioè un disco di soul bianco, come Anohni ha dichiarato all’Atlantic, un concetto complicato e fortemente discusso che è però “where my voice comes from”, è chiaro che a intrecciarsi siano da un lato gli artisti che Anohni cita nell’intervista, artisti con i quali è cresciuta, come Boy George e Alison Moyet, dall’altra i geni black del soul come, ovviamente, Marvin Gaye e Otis Redding. Proprio a Marvin Gaye e al suo straordinario What’s Going On questo disco guarda in maniera molto esplicita, dai temi ecologici che lo attraversano a quelli civili e sociali – tutte queste cose, in fondo, sono strettamente intrecciate – fino a creare, come ha detto Anohni, “a single vision that comprised a worldview”. Questo prova a fare anche My Back…, tenero soul bianco che è “al servizio” di un’idea di società e di mondo più di cinquant’anni dopo il capolavoro di Gaye.
Con un gruppo di musicisti così esperto e talentuoso e con una voce come quella di Anohni, poi, il risultato non poteva che essere grandioso. Il soul ritmato e drammatico di “It Must Change”, che sfocia nel grido di aiuto ormai tardivo e inascoltato «No one’s getting out of here/That’s why this is so sad», è una riflessione sul dramma che il nostro pianeta sta attraversando e su quanto profondamente l’essere umano ne sia responsabile. È un’apertura particolarmente incisiva e tagliente di un album che sin dalle sue prime battute vuole porsi in una direzione musicale e tematica ambiziosa e combattiva. In “Can’t” è ancora la sua voce al centro, così libera ed evocativa: eliminati tutti o quasi i paletti che la limitano spinge forte e poi decelera creando insieme al gruppo un ritmo ossessivo e seducente. « I can’t stop it / Can’t undo it / Can’t reverse it / I won’t have it”, afferma Anohni saldamente, fino a ripetere più volte «I don’t want you to be dead», che nel finale emerge quasi come un mantra.
Il disfacimento a cui siamo indiscutibilmente indirizzati – quasi votati, pare – sembra impossibile da invertire nella visione di Anohni. «And in this society / A scapegoat is all I can be», canta in “Scapegoat”, un brano che esplora esplicitamente la transfobia, non con tono rassegnato ma con un incedere bellicoso e polemico, come a ribadire che non accetterà questa parte nel gioco senza combattere, per non dare soddisfazioni in più a chi cerca in ogni modo di renderle la vita più difficile. L’aggressività lirica di un brano come questo o del breve e pungente “Go Ahead” quasi richiama alcune canzoni dei Radiohead del periodo Kid A / Amnesiac. Anche qui, infatti, il tema ambientalista e quelli sociale e politico si incrociano in modo sanguigno e tormentato: Anohni attacca un potere viscido e spietato che lei sembra, però, considerare interamente vuoto, per citare un passo di Lucrezio; in “Go Ahead” lo invita addirittura a continuare nelle sue vessazioni e nella sua ferma volontà di distruggere il pianeta, chiudendo il pezzo con un ironico ma al tempo stesso tremendamente vero «I can’t stop you».
La dolcezza e compattezza della voce di Anohni non è qualcosa con cui è facile scendere a compromessi. Ti arriva addosso come una tempesta fredda o calda e ti avvolge, ti segue, ti trasporta. In un brano glaciale come “Sliver of Ice” si muove in tutta la sua autenticità, volteggiando nello spazio ed occupandolo con grazia. «I belong here, as animals might», canta con pudore e intimità. In “I Must Change” si muove in tutta la sua libertà e aggressività, alimentando, nella sua seconda parte, una climax ascendente dove la voce e gli strumenti quasi dialogano e poi si spengono pian piano. Anche in “Can’t” la vivacità e versatilità della sua voce emergono trionfalmente, sorrette, per di più, da una performance musicale di livello strabiliante. Lo stesso fa, con risultati completamente differenti, il canone dalla solennità quasi religiosa di “There Wasn’t Enough”, dove un cantato in equilibro tra il mondo del gospel e quello di ghiaccio e di fuoco di Jeff Buckley ci precipita in una dimensione ultraterrena e puramente astratta.
A una visione globale dei problemi, si diceva, si affianca anche una visione personale che a tratti diviene persino intima. Le altalene emozionali della rapida “It’s My Fault”, in cui Anohni non si piange certamente addosso ma scende a patti con sé stessa nel riconoscere le responsabilità, anche minime, di ognuno di noi per quello che stiamo attraversando: «It’s my fault / The way I broke the Earth», canta, chiudendo il brano con l’aprosdóketon «Water dies / I love lies» che suona quasi sinistro. Non è più tenera verso sé stessa e verso ciò e chi ha intorno “Why Am I Alive Now?”, tematicamente molto vicina ad alcuni brani di Hopelessness: «Why am I alive? / I don’t want to feel this / Aching color of our world», canta quasi indifesa di fronte alle colpe di un genere umano che non ha intenzione di cambiare fino ad arrivare alla lancinante richiesta che è «Hide me from my disease».
Nelle pieghe di questa eruzione vulcanica violenta e inarrestabile ci sono anche momenti flebili e agognati di speranza, brevi, fragili ma pur sempre cullati come un sogno a occhi aperti; questa pace, tuttavia, è spesso più vicina a una fine dei tempi o della propria vita sentite come liberazione dai tormenti. «My back was a bridge for you to cross», canta Anohni in “You Be Free”, ma questo momento di tregua sfocia nella drammatica osservazione immediatamente successiva, «I wished in the aftermath / That the Earth would take my life», destinazione finale per tutti noi, senza sconti o scorciatoie; ed è il sentimento epicureo del non temere la morte che tiene aggrappati, in qualche modo, a questa vita, nonostante i drammi e le ingiustizie. È un circolo vizioso e iniquo che nessuno vuole né forse può davvero arrestare, e che tutti sappiamo dove ci porterà alla fine; nel frattempo, My Back Was a Bridge for You to Cross è un ottimo modo per rifletterci.
80/100
(Samuele Conficoni)