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Era una data sola, quella dei Blur, in Italia. Sarà stato per quello che c’era tutta quella gente, a Lucca, in un enorme campo vicino alle magnifiche mura che cingono quella città così aggraziata e un poco stravolta dall’enorme afflusso di spettatori, aggiunti al già numero consistente di turisti.
Ho sentito parlare di 40.000 persone e non stento a crederlo. Stentavo a credere ai miei occhi, perché non ho mai percepito i Blur come fenomeno da concerto di massa, nel nostro paese: di certo la data unica, avrà contribuito, di certo sì. È stato bellissimo vedere tutta quella gente, anche se un po’ pensavo che molti di essi fossero degli intrusi a casa mia: chi è che li aveva invitati tutti, non era un concerto per aficionados sparsi qua e là, da più di 30 anni a questa parte?
L’ultima volta che avevo visto i Blur fu nel 2003 al Vox di Nonantola, ci saranno state al massimo 2.000 persone, li vidi anche a Cesena, nel 1997, al palazzetto, una band che aveva una gran fretta di finire il concerto e tornare a Londra, o nell’Essex, o in Islanda.
I Blur che vidi a Nonantola, inoltre, non erano proprio i Blur: Coxon aveva mollato il gruppo e i Blur senza Coxon, lo si può ben ribadire dopo il live dell’altro giorno, non esistono.
Non esistono anche se Albarn continuasse a stupire per altri due decenni con il suo songwriting prodigioso, con la sua inventiva debordante, che come ben sappiamo produce in ogni direzione: solista, nel progetto più di nicchia di The Good The Bad & The Queen, nella versatilità incontrollabile dei Gorillaz, nei vari progetti e collaborazioni con musicisti africani.
Damon Albarn è forse il più grande genio della musica pop contemporanea, da almeno 20 anni e in più è diventato un artista che sa stare sul palco, che si dà, e non può che fare piacere.
Ma, tornando sopra, il motore sonico dei Blur rimane Graham Coxon, con i suoi antiassoli, i suoi accordi diminuiti, il suo uso del feedback, la sua natura schizzata che fornisce al quartetto quell’incisività che altrimenti non avrebbe, rischiando di diventare l’ennesimo gruppo che accompagna Albarn.
E invece, sono proprio tornati i Blur, suonano incazzati, sporchi, pescando in un catalogo memorabile, soprattutto dal secondo album, “Modern Life is Rubbish” e da “Parklife”, due dei più grandi affreschi di musica e cultura inglese mai realizzati. Abbiamo sentito tanto post punk, da “Popscene” e “Oily Water”, da “Advert” a “Tracy Jacks”, canzoni che rivaleggiano con i grandi bozzetti Union Jack dei Kinks, degli Who, dei Jam.
Per giunta, il giorno prima del concerto, è uscito un altro capitolo della loro storia, “The Ballad of Darren”, che, ve lo diciamo subito, è di una bellezza stupefacente e del quale ne sono state estratte tre tracce, per il live, la dissonante “St.Charles Square”, la tipica bluriana “The Narcissist” e un instant classic come “Barbaric”.
Prima di isolare, in chiusura, tre o quattro momenti topici, due parole sulla location e sulla organizzazione: bello il posto, ma purtroppo l’acustica era scandalosa, i megaschermi erano praticamente adagiati per terra, perdendo la loro funzione primaria di fare vedere a chi non riesce o a chi è troppo lontano, tanti, troppo lontani, il missaggio impreciso e problemi tecnici vari, tra i quali un black out totale durante “Tracy Jacks”, mannaggia!
I momenti che ricorderò: (a) rivedere Alex James coi suoi pantaloncini da scolaretto e la paglia in bocca; (b) il bacio di Damon a Graham e ne ha ben donde; (c) la voce profonda di Damon, che non ha mai perso un colpo e, infine, (d) la strepitosa Telecaster verde di Coxon lasciata a feedbackare da sola davanti all’ampli, Coxon se ne va e rimane quel suono sfaccettato, che sembra una sorta di rumore di fondo dell’universo, misterioso e incombente, e poi, improvviso, il silenzio.
Ah, una vera ultima cosa: Damon adesso ha gli occhiali di Coxon, Coxon – ovviamente – non più.
(Max Cavassa)