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Non sono settimane facili, queste.
Non sono settimane facili se si cerca un certo racconto della musica, se si insegue la sperimentazione, la sorpresa: se si vuole, soprattutto, essere colpiti da qualcosa.
Lo diciamo perché siamo nel pieno di una lunga serie di tour italiani e stranieri, con numeri piuttosto vistosi di pubblici che nonostante temperature roventi, costi dei biglietti altissimi, una generale, abituale, situazione di disagio per spettatori che vivono situazioni di attese (lunghe) e spese (alte), con rare concessioni ad un fruire della musica lontano da quello che è ormai “il mega evento”.
Il tour negli stadi, nelle piazze, le arene, le folle: è innegabile il successo, frutto di una proposta ampia e, almeno in certe direzioni, che funziona.
Molti si lamentano, tutti pagano, in sostanza.
Solamente che esiste un grosso imbuto: tante persone vanno a pochi eventi, poche persone vanno a tanti eventi e quando c’è questa costante narrazione dell’evento “imperdibile” si soffoca una certa spinta alla scoperta.
Insomma: non sono settimane facili, per raccontare qualcosa di contemporaneo (ci scusiamo se non può essere contemporaneo il successo enorme di gruppi e artisti che solcano i palchi da venti, trenta, quaranta anni) e per scrivere di fiamme vive.
Ma eccoci, oggi siamo qui e lo siamo con la sensazione di avere assistito nell’ultimo anno e mezzo ad una delle più straordinarie “storie” della recente discografia.
Black Country, New Road, gennaio 2022.
Arriva una dichiarazione: Isaac Wood, voce del gruppo, decide di mollare a pochissimi giorni dall’uscita di Ants From Up There, secondo attesissimo disco della band.
Motivi personali, una grossa crisi emotiva e gestionale, un problema suo, non del gruppo.
Una band giovanissima, che si è costruita un seguito di proporzioni ampie con una manciata di canzoni e un primo disco “For the first time” uscito nel 2021, dopo una attesa che ne ha creato un piccolo culto.
Black Country, New Road, estate 2023.
Da sette a sei, da una voce a tre, da una certa leadership ad un gruppo che lavora assieme, canzone dopo canzone, mese dopo mese e che ha fatto una lunga serie di scelte inusuali.
La prima: non suonare mai più dal vivo nessuna delle canzoni uscite nei primi due album, con la conseguenza di quel secondo disco che è parallelamente uno dei migliori dell’anno e un disco mai suonato su un palco.
La seconda: dopo qualche settimana di pausa, i (nuovi) Black Country,New road pensano di fare un giro in alcuni festival estivi provando letteralmente sul palco nuove soluzioni, nuovi equilibri, nuovi brani.
Una nuova vita, sotto gli occhi di tutti, con anche una certa serie di critiche e dubbi perché è tutto diverso e in sostanza va in scena lo spettacolo di un gruppo che si reinventa durante le varie tappe del tour, settimana dopo settimana.
La terza: la pubblicazione di nuovo materiale, 47 minuti per otto più una traccia (una reprise della prima), un disco dal vivo, registrato in tre live alla Bush Hall di Londra a fine 2022, dentro un locale pieno di storia e capace di contenere poco più di qualche centinaio di persone.
Dal vivo, non su disco, una tappa di avvicinamento ancora.
E una fotografia del momento.
Ora, esistono probabilmente solo due possibili scenari in questi tempi veloci e privi di attenzione per un percorso simile: la nascita di un culto o il crollo della credibilità personale.
Anche perché: non c’è niente di “perfetto” in questi brani.
Ci sono enormi intuizioni, istanti di rara bellezza e anche accenni di qualcosa che ancora stona leggermente, che ancora sta crescendo: è il primo anno tra i professionisti di uno sportivo, dove riconosci il talento, dove trovi degli errori, dove vedi qualcosa che non vedi in quelli che non sono così speciali.
Ma c’è un enorme punto a favore di questo percorso di diciotto mesi: oggi i Black Country, New Road hanno un pugno di canzoni, una struttura chiara e un pubblico.
Un pubblico, possiamo ipotizzare sulle mille persone in questa prima di quattro (o forse meno, ma non di tanto) che ha assorbito l’eliminazione di tutto quello che amavano in quella band, ha scelto di rimanere a fianco dei sei rimasti e che oltretutto ha ascoltato quel live come fosse un disco già fatto e finito.
Quando parte “Up Song”, l’elettrica e dinamica canzone che apre disco e concerto, tutto il corpo centrale assiepato in un quasi intollerabilmente caldo Dumbo di Bologna si lancia, quasi poga, canta in ritornello: “Look at what we did together, BC, NR friends forever”.
Guarda cosa abbiamo fatto assieme, amici per sempre dei Black Country, New Road.
Quello che accade nell’ora abbondante successiva è la messa in scena della nuova vita della band: ora la voce principale si divide tra Tyler, May e Lewis, ora la ricetta è ancora più intensa nei saliscendi emotivi e sonori, con istanti introspettivi e scalate in direzione Arcade Fire (i primi) e poi ancora, nel fragore post rock.
Il pubblico, si diceva: almeno per quattro volte è in grado di recitare a memoria i momenti più riusciti del disco (“A Boy”, “Across The Pond Friend”, “Dancers” e la già citata “Up Song”) almeno due volte si organizza in maniera autonoma per chiedere il completo e totale silenzio (ad esempio nella quasi religiosa esibizione di Turbines/Pigs, nei suoi quasi dieci minuti di pianoforte e voce prima e di fragore poi.
La straordinarietà sta nel fatto che la proposta portata è ancora più complessa: i Black Country oggi sono un insieme più vicino ad una proposta orchestrale su base rock, sono incastri di voci, violini, pianoforte, batteria spesso a tenere il tempo obliquamente e fare crescere di emotività i momenti esplosivi dei brani.
Sono l’antitesi stessa della facilità di ascolto che parecchio pubblico e parecchia stampa hanno accettato di raccontare, facendo collimare in maniera a volte sorprendente il mainstream e quella nicchia alternativa che per tanto è stata bandiera dell’andare più in là: nei suoni, nelle strutture, nelle sperimentazioni.
In sostanza: capitava che fossero pubblico e stampa a far diventare un disco violentemente ostico come Kid A dei Radiohead una bandiera generazionale, mentre oggi ci sono artisti di spicco della cultura popolare che diventano bandiere (lo dobbiamo dire?) da top 3 nelle classifiche di fine anno della stampa specializzata, per quello ovviamente che conta oggi (poco, si sa).
Per fare un esempio, “I Wont Always Love You”, che parte isolata, quasi solo voce, quasi medievale nel suo “epic sad” (epicamente triste, come la band ama definirsi) e poi ecco dopo un minuto e mezzo un completo cambio di atmosfere e un volo diretto in direzione di quegli Arcade Fire già citati, magari di Funeral e poi passare ancora oltre, ad un finale di post rock orchestrale che scivola in ulteriori direzioni e annega tra gli strumenti, come una nave prima tranquilla e poi in mare tempestuoso,per descrivere la fine di una relazione (And I’m trying to be calm about it / But honestly I’ve never reached this point before / I can’t live through another night like that / And you know it – e io sto provando a rimanere calma su questo / ma onestamente non ho mai raggiunto questo punto prima d’ora / non posso vivere un’altra notte come questa / e tu lo sai).
Istanti, fragori, bellezza, errori, difficoltà, imprecisioni, poi ancora momenti di grande musica e soprattutto una sensazione finale: c’è ancora tantissima energia qui dentro, c’è quella persona di talento, che magari aveva brillato, poi si è fermata per un infortunio e tu la osservi, mentre si prepara ad una nuova fase e forse lui è incerto sul suo futuro, ma tu no.
Tu lo sai che qui davanti ci sono tante pagine importanti ancora da scrivere, c’è un pubblico che è rimasto incollato ad attendere, c’è quella energia particolare che si vive quando si frequentano le fiamme vive, che non necessitano del soffio del pubblico per rimanere accese, all’opposto scottano il viso con la loro carica e al netto degli errori e di una strada scelta piuttosto impervia, stanno per scrivere nuove pagine che dovremo raccontare.
Eccome, che le dovremo raccontare.
(Alessio Falavena)