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Bob Dylan – Milano, Teatro Arcimboldi, July 4, 2023; Roma, Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, July 9, 2023
Bob Dylan mancava nel nostro paese da cinque anni, ma il cantautore Premio Nobel per la Letteratura non si è praticamente mai fermato da allora, cosa che di certo non sorprende. Ha dato alle stampe il capolavoro Rough and Rowdy Ways alla fine della primavera del 2020, uno dei lavori migliori della sua carriera secondo gran parte della critica e del pubblico. Un anno dopo ha diffuso il film-concerto Shadow Kingdom, poetico e misterioso, suonato e interpretato splendidamente. Sono usciti, nel 2021 e nel 2023, due nuovi, imperdibili volumi della fondamentale Bootleg Series. Dylan è poi ritornato in tour nel novembre del ’21, non appena le problematiche relative alla diffusione del Covid iniziavano a diminuire.
Questo Rough and Rowdy Ways Worldwide Tour 2021-2024 – tournée etichettata con un nome tanto esplicito quanto tautologico dal momento che in scaletta vengono eseguiti quasi tutti i brani contenuti nel suo ultimo lavoro in studio – ha già toccato tantissimi paesi. Il suo nome forse prende volutamente e ironicamente le distanze da quel Never Ending Tour – così lo abbiamo sempre chiamato noi amanti e studiosi dell’artista – che Bob aveva iniziato nel 1988 e che si è (veramente?) concluso alla fine del 2019 per “cause naturali”. Quel tour che sembrava non dover finire mai, che lasciava al cantautore solo qualche mese di pausa tra una leg di tour e un’altra, senza che ci fosse mai un intero anno di pausa, sarebbe andato ancora avanti senza sosta se non fosse stato… per un virus. «It’s funny how things never turn out the way you had ‘em planned», per citare un verso contenuto in un suo epico brano, “Brownsville Girl”, scritto a quattro mani con Sam Shepard.
Il Rough and Rowdy Ways Worldwide Tour, come si diceva, ha fatto già tappa in buona parte del mondo occidentale e in Giappone. Dylan ha attraversato una parte degli Stati Uniti nell’autunno del ’21 e ancora nella prima metà del ’22, poi buona parte dell’Europa lo scorso autunno, quando fui presente al primo dei tre show parigini dell’ottobre ’22; il Nostro è poi sbarcato in Giappone lo scorso aprile e adesso nuovamente Europa, in attesa di scoprire che cosa farà e dove andrà nei prossimi mesi. Quasi certamente terrà altri concerti negli States e in Canada in autunno, ma per ora nulla è confermato. Quel che è certo è che Bob Dylan è in una forma strepitosa e vive questa fase di carriera, a 82 anni da poco compiuti, con una grinta e una convinzione ammirevoli.
Non sorprende ormai più, visto che questa pratica si era inaugurata nel 2022, la collaborazione di Bob Dylan con l’azienda statunitense Yondr che all’ingresso degli show ti obbliga a imbustare lo smartphone in una sacca chiusa magneticamente che lo spettatore poi tiene con sé: è, però, la prima volta che ciò avviene in Italia e chi non ha assistito ad altri show recenti del cantautore guarda alla cosa con curiosità e sospetto. La policy del “no photos, no videos, no audio recordings”, in realtà, vige da più di un decennio nei concerti dylaniani e già prima di Yondr chi veniva sorpreso a fotografare o a filmare parti dello show veniva bloccato dalla security del luogo, tranne in alcuni concerti outdoor particolarmente numerosi dove questi controlli “panoptici” erano pressoché impossibili. Ma, sempre per citare il nostro, «these bootleggers [i produttori di whisky di contrabbando o i diffusori di concerti registrati in maniera pirata?] make pretty good stuff»: i fan più abili, infatti, riescono a nascondere un secondo smartphone, un registratore audio o una macchina fotografica nella borsa per provare a immortalare qualche attimo dello show senza farsi scoprire. In bocca al lupo.
Dei cinque stop del cantautore in Italia, tutti a inizio luglio, coda di questa tranche europea di tour – Milano per due sere, Lucca, Perugia, Roma –, ho potuto assistere al secondo dei due show meneghini al Teatro Arcimboldi e a quello romano all’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone nella Sala Santa Cecilia (e con questi sono a quota 18 show del Nostro: il primo fu a Pistoia nel luglio 2006, e da allora tanti, tanti altri). La cronaca che segue percorrerà entrambi gli eventi, che, come si diceva sopra, condividono una setlist pressoché identica se non per alcune divergenze nelle cover eseguite dal cantautore nella parte finale delle serate, delle quali avremo modo di parlare a breve.
Del tour col quale Bob sta portando in giro per il mondo il suo Rough and Rowdy Ways è stato già scritto quasi tutto. La scaletta, dopo alcune modifiche ed eccetto qualche sorpresa imprevedibile, come un brano autografo che talvolta ne sostituisce un altro o, da quest’anno, qualche cover inattesa e particolarmente brillante, è fissata da più di un anno, e funziona perfettamente nell’equilibrio di uno show che ha nella sua precisione e nella sua raffinatezza due delle chiavi di lettura più importanti: esso è uno spartito chiaro e ben fissato nella mente di tutti gli attori che fanno parte della compagnia. Il suono è curato nei minimi dettagli, ogni arrangiamento è profondamente originale e in alcuni casi evolve e cambia nel corso dei mesi, la qualità della performance e l’intesa tra i musicisti eccezionali. Lo show è un meccanismo ben oliato che né suona mai prevedibile né sembra specchiarsi nella sua bellezza: è sostanza, è materia, è mente, è vita.
La band che ha intorno Dylan è un’orchestra collaudata dalle possibilità sonore pressoché infinite. Dylan la “dirige” come si fa in un concerto di musica classica. Per tutto il tempo il cantautore è seduto o molto spesso in piedi al pianoforte a coda al centro del palco e quasi sembra volersi nascondere da noi dietro di esso per buona parte dello show. Solo quando si alza in piedi la platea può ammirare chiaramente il suo viso; immersi in questa penombra siamo rapiti dalla sua notevole e arcinota chioma riccioluta e dalla sua voce tenebrosa, spesso sporcata e talvolta invece pulitissima.
Come accade da oltre un decennio, le luci sul palco sono basse, minime, e i musicisti formano come un semicerchio dietro Dylan, quasi a proteggerlo e a sorreggerlo. Per la precisione dell’esecuzione e per la particolarissima atmosfera sembra di essere di fronte a un concerto di classica contemporanea: le poche luci e il tendaggio rosso – alienante e à la Twin Peaks – dietro Dylan e i suoi cinque compagni di viaggio contribuiscono a rendere ancor più chiara e fascinosa questa strana sensazione.
Un suono polveroso e melanconico, che sembra provenire da un club di jazz e blues di un’altra epoca, dove il tempo si è fermato e il cantante del complesso potrebbe avere ottantadue anni come duecento, è quello che caratterizza la forma più recente dei concerti dylaniani. I chitarristi, gli eccezionali Doug Lancio e Bob Britt, seguono e imbeccano Dylan come riesce solo a chi sa di essere accanto al migliore e di poter scavare insieme a lui nelle anime di chi si ha davanti. Le loro mani sono prosecuzioni naturali della forza e dell’incisività dello strumento che talvolta accarezzano e su cui talvolta spingono forte.
Il fedelissimo Tony Garnier al basso e al contrabbasso è esattamente dietro Dylan, quasi nascosto da lui; metronomo incessante e geniale, si muove a tempo entrando anche fisicamente nei brani. Alla batteria Jerry Pentecost modella ritmi spesso accattivanti e sempre molto originali, sia nelle sue scelte sia nel mood con cui le vive: basti pensare al suo lavoro e a quello dei chitarristi nella spettrale “Black Rider” o nella struggente “I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You”. Il polistrumentista Donnie Herron, che si divide tra violino, chitarra e pedal steel, è, come sempre, una garanzia di precisione, di costanza e di maniacale applicazione ai suoi strumenti: la sua steel si espande nei blues più torrenziali e il suo violino impazza negli acquerelli folk più intimisti e al tempo stesso scatenati come “I’ll Be Your Baby Tonight” e “To Be Alone with You”, e il suo apporto è cruciale anche nell’acidissima “Most Likely You’ll Go Your Way (And I’ll Go Mine)”, unica traccia in scaletta del mit(olog)ico periodo dylaniano 1962-1966.
Anche sulla scaletta di questo tour si è detto e scritto molto: proveremo qui a fornire qualche elemento in più di riflessione in merito a essa nelle due serate prese in considerazione. Anche a Milano e a Roma non sono mancati i nove brani – dei dieci totali – presenti nell’ultimo disco in studio, pezzi che Dylan esegue ogni sera. I brani e lo spettacolo in sé, che non ha nulla di autocelebrativo, hanno al suo centro quel sentimento che solo il termine anglofono longing può descrivere. In essi vive, infatti, il desiderio di qualcosa – di una persona, un luogo, un’epoca: “Key West” come Terra Promessa, la strada dove tutte le religioni del mondo sono celebrate come in una festa in un tempo immemorabile in “Goodbye, Jimmy Reed”, il gusto sapienziale e guerriero di “False Prophet” e del suo ambiguo contenuto – che già nel film-documentario Shadow Kingdom emergeva.
Dylan è a caccia di un mondo e di un tempo perduti chissà dove e chissà quando, sempre che siano mai esisti quel mondo e quel tempo. Più che altro, la musica e le parole di Dylan vivono esse sì al di fuori del tempo e dello spazio: «I’m a man of contradictions, I’m a man of many moods / I contain multitudes», canta con trasporto e con sincerità citando Walt Whitman, e ancora «Everything’s flowing all at the same time», appunto, perché «I sleep with life and death in the same bed». La magistrale esecuzione di “I Contain Multitudes” ribadisce il ruolo di questa canzone come (ennesimo) manifesto di poetica dell’arte dylaniana, polimorfa e imprevedibile. Non a caso nel brano si cita anche il mondo della pittura, che, come quello della scultura, è parte integrante dell’universo dylaniano, come dimostrano le esposizioni dedicate alle sue opere visuali.
Alcune canzoni, come “When I Paint My Masterpiece” – è stato particolarmente divertente sentir cantare delle «streets of Rome», delle «Spanish Stairs» e del «Coliseum» in Italia e in particolare a Roma, dove Tony Garnier a inizio brano, sorridendo, ha invitato il pubblico ad applaudire – e “To Be Alone with You”, hanno testi ampiamente riscritti; la prima di queste due in particolare ha subito una evoluzione lirica e musicale – nel sound e nell’arrangiamento – difficilmente prevedibile nell’estate 2018, quando divenne un elemento fisso della setlist di Dylan.
Accanto a questi brani, per mood e per il periodo in cui venne composto e pubblicato, sta “I’ll Be Your Baby Tonight”, romantico folk arrangiato in modo polimorfico, con la band che prima è solo una comparsa al fianco del crooning pianistico e vocale di Dylan e che poi diventa protagonista nell’infuocata parte strumentale, dove il ritmo accelera di colpo prima che rallenti di nuovo quando la voce poi rientra. È impossibile definire brani come questi “minori” – nulla lo è in un corpus stratosferico come quello dylaniano –, ma il fatto che buona parte della scaletta sia occupata da brani come questi o come il blues brioso di “Watching the River Flow” che apre il concerto, anche questo composto circa negli stessi anni dei tre pezzi ora citati, è sintomatico: nell’universo artistico (e anche umano, e storico) di Dylan – e anche per noi appassionati – tutti questi brani valgono quanto quelli che più hanno segnato l’evoluzione del mondo cantautorale mondiale.
Proprio di storia gronda la scaletta di questo worldwide tour finora, di storia della canzone americana oltre che di quella dylaniana. Al centro della scena il blues e il folk. Come ha sempre fatto, Dylan cerca di ritornare alle radici della storia della canzone americana (e a volte addirittura anglosassone). La polverosa “Crossing the Rubicon” – con alcuni versi cambiati – è veleno allo stato puro in cui si resta impantanati. “Gotta Serve Somebody”, anche questa con un testo per grossa parte riscritto, è una scarica di adrenalina violentissima. “Goodbye, Jimmy Reed” è un blues raccolto e riflessivo, benché anch’esso paludoso e asfissiante. La conclusiva “Every Grain of Sand”, uno dei vertici lirici e musicali del cantautorato di Dylan, lascia tutti senza fiato. L’assolo di armonica finale – che Dylan ha suonato solamente in quel frangente – è struggente e induce il pubblico a un applauso gigantesco. Non c’è (da tempo) alcun encore: Dylan e i suoi stanno sul palco tutto il tempo, lui presenta la band – con toni giustamente entusiastici – dopo il dodicesimo brano in scaletta e i pezzi sono eseguiti di filata, senza alcuna pausa.
I nove brani di Rough and Rowdy Ways presenti in scaletta sono eseguiti in modo impeccabili. Alcuni hanno arrangiamenti molto diversi rispetto alle incisioni in studio. L’opera dylaniana – ormai ben nota – di decostruzione e ricostruzione del concetto di canzone nell’era della sua riproducibilità tecnica – chi ha orecchie intenda – è ciò che più conquista e impressiona il pubblico. Dylan canta ma più spesso recita e declama i suoi versi – si pensi alla spezzata e claustrofobica “Key West” o alla scivolosa e vivacissima “My Own Version of You” – come avrebbe fatto un performer di tempi antichi e immemorabili.
Da diversi mesi Dylan sorprende di tanto in tanto i suoi spettatori eseguendo una o due cover inattese nel set al fianco (o al posto) di uno degli standard “sinatriani” che di solito suona. Lo standard era in scaletta nel secondo show milanese, a Perugia e poi anche a Roma. Si tratta di “That Old Black Magic”, inciso in Fallen Angels, uno dei tre album in studio che esplorano il Great American Songbook statunitense pubblicati da Dylan tra 2015 e 2017. Nello show milanese del 3 luglio – al quale chi scrive purtroppo non era presente – la sorpresa è stata particolarmente mozzafiato dal momento che la cover eseguita da Dylan e dalla sua band è stata “Bad Actor”, un brano folk del compianto Merle Haggard risalente al 2010, venuta subito dopo “Not Fade Away”, scritta da Buddy Holly e Norman Petty e resa celebre da Rolling Stones e Grateful Dead (ed è a questi ultimi che guarda Dylan nello sceglierla).
Per quanto concerne la seconda serata milanese, quella del 4 luglio, abbiamo potuto godere del classico dei Dead “Brokedown Palace” in una esecuzione brillante e sentita che è stato senza dubbio uno dei momenti più intensi ed esaltanti dello show. Nelle ultime settimane e mesi sono spuntati nel set altri brani dei Dead o di loro membri come “West L.A. Fadeaway”, eseguita a Lucca, o come “Only a River”, pubblicata da Bob Weir nel 2016 e scritta da Weir e da Josh Ritter, eseguita sorprendentemente a Roma per la gioia di tutti. Prima di Roma era stata suonata soltanto una volta a Nagoya il 20 aprile scorso, nell’ultimo show giapponese di questa primavera. L’esecuzione è stata straordinaria, con la voce di Bob profonda e passionale come per tutto il resto della serata; una serata, quella romana, che, a detta del sottoscritto e di molti amici con i quali ho parlato al termine del live, è stata una delle migliori per Dylan nelle ultime settimane. «Only a river gonna make things right», canta Dylan con tono quasi commosso, conducendo un pezzo folk contemporaneo in un altro universo fuori da ogni tempo e da ogni spazio.
Le sorprese, però, non finiscono qui, perché a Roma c’è stato spazio per una terza cover che ha fatto alzare in piedi quasi tutto il teatro per ballare e per tenere il tempo a suon di applausi: è “Truckin’” dei Grateful Dead, anch’essa eseguita due volte nel tour giapponese di qualche mese fa e poi ricomparsa questa sera. Come “Brokedown Palace” è contenuta in quel disco capolavoro dei Dead che è American Beauty. Dylan e i membri dei Dead sono legati da una lunghissima amicizia, soprattutto quella tra lui e il compianto Jerry Garcia, e da collaborazioni fruttuose, visto che con i Dead Dylan si imbarcò in un mini-tour nel 1987 e con l’amico Robert Hunter, da non molto scomparso, scrisse a quattro mani diversi testi. Il modo che ha scelto per render loro omaggio, cioè quello di selezionare alcuni dei loro brani più belli e farli suoi, come Dylan fa per tutti i brani altrui che sceglie di eseguire, è il migliore regalo che potesse fare a loro e a noi. “Truckin’” corre come un treno merci e lascia esterrefatto il pubblico: «What a long, strange trip it’s been», per citare un noto verso di quel brano. Bob e la sua band sembrano fatti apposta per suonare questi pezzi di altri; pare sorgano spontaneamente dai loro devoti strumenti.
«Sono già sopravvissuto di gran lunga alla mia vita», canta Dylan in “Mother of Muses”, posta nell’ultima parte del concerto, prima di “Goodbye, Jimmy Reed” e di “Every Grain of Sand”. Nella frase conclusiva di quel brano, «Viaggio leggero e sto pian piano ritornando a casa», ci sembra quasi di intravedere la parabola stessa di Dylan, quella di un bardo errante che per tutta la sua vita è esistito in un time out of mind che lo certifica come la più straordinaria, eccezionale e inimitabile figura della sua epoca. Alla fine degli show, dopo che qualche velocissimo “Grazie” era stato proferito in alcuni momenti del concerto, Dylan si avvicina rapidamente al microfono posto quasi al centro del palco. Lui e la band si prendono gli applausi che meritano. Il pubblico se lo culla con dolcezza e con rispetto.
Molti, come il sottoscritto, si alzano convinti di aver assistito a qualcosa di memorabile; tutti quanti, in ogni caso, sono emozionati, ipnotizzati e forse persino impauriti, perché quando si è al cospetto di un artista come Dylan si ha paura che qualcosa possa portarcelo via e che non potremo più sentire a pochi metri da noi cantare e interpretare quei magistrali versi o soffiare così bene in quell’armonica. Per questo siamo una volta di più estremamente grati e consapevolmente fortunati di aver condiviso il nostro viaggio insieme a lui.
[P. S. La foto in alto, scattata dal caro amico Andrea Orlandi a Roma, testimonia una volta di più la straordinaria bravura come fotografo di questo super fan, come avevo avuto modo di scrivervi qui giusto un mese e mezzo fa, e noi lo ringraziamo per avercela fornita in esclusiva. Per le scalette degli show di Dylan, invece, potete fare riferimento a questo sito.]