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Una band che piaceva a tutti
Ok, non è stata la separazione che ha fatto più rumore della storia del rock, ma anche lo split Orzabal-Smith ebbe i suoi riflettori, agli inizi degli anni ’90. Un piccolo rewind: i Tears For Fears avevano avuto fama e critica dalla loro parte fin dall’inizio, da quel “The Hurting” (1983) che aveva fatto sfracelli in UK (arrivando al 1° posto, mica male per un debutto) ma non ancora negli States, ma anche qui si erano rifatti subito dopo, conquistando la vetta più alta della classifica di Billboard già con il secondo “Songs From The Big Chair” (1985). Praticamente i TFF si erano affermati come star in un “pronti via”. Per non parlare poi di “The Seeds Of Love” (1989), album ultrasofisticato e costato un botto (si parla di oltre 1 milione per registrarlo) che però fu accolto molto bene dappertutto per le melodie beatlesiane e per l’eleganza. Una delle loro caratteristiche più precipue era proprio quella di essere trasversali: piacevano alla critica per le loro citazioni colte, per la provenienza new wave genuina e per quell’evoluzione quasi jazzy in un finire di decennio particolarmente patinato, e le loro melodie strenuamente pop conquistavano pure le masse. Combinazione perfetta. Nel 1991 dunque i Tears For Fears erano a un apice, reduci da un estenuante tour mondiale ma come spesso accade in quelle situazioni di velocità di carriera, i guidatori si stavano stancando, o meglio, qualcuno iniziava a lamentarsi di tirare la carretta più dell’altro. Questo era Roland Orzabal, già sporcatosi le mani nella produzione di “The Seeds Of Love” e sempre più one-man band anche quando c’era ancora Smith. Inoltre i due stavano vivendo due fasi della vita molto diverse: Smith era alle prese con un divorzio, mentre Orzabal con i pannolini. Il tavolo andò all’aria, e non si capisce chi lasciò chi, ma parrebbe sia stato Smith ad andarsene: “Si è buttato via da solo o è stato spinto?”, si domandava Orzabal in un’intervista del tempo all’Hartford Courant, criptico in questa sua risposta interrogativa a una domanda del giornalista se la la partenza di Smith fosse stata o meno volontaria.
Meglio avere un buon manager
Ma ci fu anche un fattore strano che contribuì alla separazione dei due: il loro manager, Paul King. Secondo quanto riportato da Jamie Doward su The Guardian, infatti, Orzabal era preoccupato per come si stava comportando il loro manager che si era spinto in investimenti spericolati, mentre Smith evitò di licenziarlo non tenendo conto delle (giuste) impressioni di Orzabal. Che, appunto, aveva ragione: Paul King dichiarò bancarotta nel 1990 e anni più tardi fu condannato a tre anni e mezzo di prigione per aver truffato degli investitori, insomma non era un tipo propriamente affidabile. Già musicalmente Orzabal si sentiva lontano da Smith, se poi ci aggiungiamo anche queste valutazioni diverse sul piano propriamente organizzativo si iniziano a completare le tessere del puzzle.
Quando le lacrime iniziano a scendere
Prima di arrivare all’album della separazione, “Elemental” uscito proprio nell’estate di 30 anni fa, Orzabal mise un punto fermo nella carriera dei Tears For Fears con la pubblicazione del greatest hits della band “Tears Roll Down (Greatest Hits 82-92)” in cui la quasi totalità della scaletta era composta da brani scritti solo da Orzabal (le uniche accreditate anche a Smith sono “Sowing the Seeds of Love” e “Head Over Heels”): “Finalmente tutti possono concordare sul fatto che Curt Smith, l’altro componente dei Tears for Fears, non ha contribuito molto al sound della band”, affermava forse un po’ troppo perentoriamente Roger Catlin sul Hartford Courant. Ma l’importanza di quella compilation risiede piuttosto nel fatto che Orzabal dimostrò subito di poter continuare la ditta da solo con il (bellissimo) brano “Laid So Low (Tears Roll Down)” che era di fatto una versione espansa della precedente, principalmente strumentale, “Tears Roll Down”, lato B del singolo del 1989 “Sowing the Seeds of Love” (poi recuperata anche nella compilation del 1996 “Saturnine Martial & Lunatic”). Proprio un brano di passaggio: nato dalle ceneri di una precedente produzione in duo ma rivestito di un nuovo abito, con una melodia (molto suggestiva) e un video riconoscibile che andò in heavy rotation su MTV. È il climax di addio a colpire: nonostante sia una canzone percussivamente molto movimentata e animata da disegni stile “africano” nel video, “Laid So Low (Tears Roll Down)” è anche particolarmente lancinante e toccante, sia per quegli archi sintetici placidi e nostalgici come un lago d’autunno utilizzati nella strofa (arrangiamento in voga al tempo, basti pensare solo a “Streets of Philadelphia” di Bruce Springsteen), sia perché la tentazione inevitabile è di riportare il significato del testo alla separazione tra Orzabal e Smith (“I was humble for you What a fool I’ve been to have laid so low for so long So long Into that void of silence Where we cry without sound Where tears roll down“) anche se un passaggio fa comprendere che il vero tema del brano è la violenza domestica (“And where your mother’s violence“), argomento già caro ai TFF nella declinazione dei traumi infantili fin dal primo “The Hurting”.
È “elementare”, occorre andare avanti da soli, anzi in tre
Orzabal guarda in basso nel deserto, nella copertina di “Elemental” (1993) ma musicalmente è molto più a suo agio di quello che la cover pare voler suggerire: la rinnovata libertà di decisione porta a un album sempre curato nei minimi dettagli, com’era stato per “The Seeds Of Love” ma più lineare, più semplice e maggiormente interessato a scorrazzare tra il pop e il rock togliendosi di dosso ogni arzigogolo anche vagamente jazzy. Già le incisioni erano state tranquille, casalinghe: “Elemental” è stato infatti registrato nello studio di casa di Orzabal, “Neptune’s Kitchen”, in pratica da sole tre persone, ovvero Orzabal e i due fidi compagni Alan Griffiths e Tim Palmer, che hanno suonato la maggior parte degli strumenti dell’album.
Alan Griffiths, purtroppo scomparso nel 2017, era un conoscente di lunga data della band: nel 1978, Griffiths aveva fondato la band di Bristol chiamata Apartment, che successivamente cambiò nome in The Escape nel 1981. All’inizio del 1983 The Escape firmarono con la Phonogram Records, diventando quindi compagni di etichetta dei Tears for Fears. Se i primi due singoli della band (“NoGo” / “I’ll Pretend to Kill You”, 1982) tradiscono una derivazione tipicamente post punk, è invece come “Amsterdam” che gli Escape si perfezionano in un synthpop di chiara derivazione new wave. The Escape non arrivarono alla pubblicazione di un album, ma le loro canzoni di quel periodo vennero poi riunite e pubblicate nel 2008 dal Bristol Archive Records in un cd dal titolo “Is Nothing Sacred”.
Già nella scrittura di “The Seeds Of Love” il ruolo di appoggio di Alan Griffiths si era fatto sentire, ma è con “Elemental” che Griffiths diventa una sorta di “sostituto di Smith”, la spalla musicale di cui Orzabal aveva comunque bisogno, abituato com’era a lavorare in ogni caso in due: “Quando mi sono separato da Curt, ho scritto con Alan Griffiths e siamo stati estremamente prolifici. Riuscivamo a creare praticamente una canzone al giorno. Al era un po’ un genio, in grado di creare abbozzi musicali su cui era facile saltare su e completare una canzone. È stato un periodo straordinario”, ha dichiarato poi nel 2022 Orzabal a ClassicPopMag.
Oltre a Griffiths, che aiutava più sul lato della scrittura, faceva parte della “squadra di Elemental” anche Tim Palmer che invece contribuiva più sul piano della produzione: al tempo Palmer era già piuttosto affermato, avendo prodotto il primo album dei Tin Machine di David Bowie nel 1989 e avendo mixato “Ten” dei Pearl Jam. Palmer cercò di accelerare il processo creativo di Orzabal, notoriamente lungo e difficile per via del suo perfezionismo, e invece che le lungaggini di “The Seeds Of Love” riuscì a far registrare “Elemental” in sei mesi: “Non è stato un grande risultato, ma è stato veloce per loro”, dichiarò anni dopo. “È stato un album molto importante per Orzabal perché è stato il primo che ha fatto senza Curt Smith…”, ha spiegato Palmer. “C’era molta pressione su di lui. In realtà, è stato un album importante anche per me, perché Roland è stato uno dei primi artisti a credere in me anche da un punto di vista musicale oltre che di produzione. Arrivavo in studio al mattino e buttavo su un paio di idee, sperando che gli potessero piacere, e lui entrava e diceva, ‘È davvero fantastico. Dovremmo lavorarci su.’… Ho suonato anche parecchia batteria sull’album. C’è stato un po’ di editing, perché non posso vantarmi di essere il miglior batterista del mondo. Ma mi piaceva, e ho suonato anche un po’ di chitarra. È stata una grande opportunità per me di aggiungere qualcosa musicalmente a ciò che stavo producendo“.
Pura esternazione pop
Non c’è solo il singolone “Break It Down Again” – unica canzone del periodo “senza Smith” che ancor oggi i Tears For Fears suonano, a dimostrazione che piace anche a Curt Smith – in “Elemental”, ma anche molti altri brani assolutamente riusciti: “Cold” trasporta l’ascoltatore in un luogo altro glaciale in cui la perfezione formale (il riff di chitarra con lo slide, la strofa lavorata sui tom dalla batteria) è pura esternazione pop, “Dog’s A Best Friend’s Dog” anticipa un po’ l’urgenza chitarristica che sarà propria di “Raoul and the Kings of Spain” (1995), “Power” incita con toni enfatici nel ritornello ma più misurati nelle strofe. Un capitolo a parte deve essere speso per “Brian Wilson Said”, un omaggio in piena regola, sia per la costruzione della melodia che per i cori e l’organo, di Orzabal a Wilson e ai suoi Beach Boys, che per complessità sembra un po’ un ritorno indietro alle architetture di “The Seeds Of Love”, ma è – appunto – solo un episodio. I momenti meno memorabili sono quelli un po’ appesantiti da sonorità che andavano di moda in quel periodo come il tempo house di “Mr. Pessimist” e i suoni di tastiere modello workstation di “Gas Giants”, ma a questo paio di brani si contrappongono invece pezzi attraenti come “Fish Out Of Water” (con un testo che è un’invettiva contro Smith, e questo invece è certo e non è un’interpretazione) e la conclusiva, rilassata, “Goodnight Song”.
“Soul On Board”: Curt Smith non aveva anima
E, nel mentre, cosa faceva Curt Smith? Un paio di mesi dopo “Elemental” dava alle stampe un album terribile, che lui stesso ha più volte disconosciuto (infatti non è presente nemmeno sulle piattaforme streaming), ovvero “Soul On Board” (1993): melodie cliché, testi buonisti, suoni laccati, produzione latitante. Curt Smith dimostrava così di non avere molte idee, e che Orzabal aveva fatto bene a continuare senza di lui. Seppure “Elemental” non è un album perfetto, l’intenzione e la voglia di far bene che si respira in esso è estremamente più cool rispetto a un album senza sapore, anzi – parafrasando il titolo, senza anima come “Soul On Board”.
Successivamente Orzabal avrebbe continuato a lavorare con la squadra di “Elemental” per arrivare dalle parti del “Re di Spagna”, ma è storia successiva, così come lo è la successiva reunion “perché tutti amano gli happy ending”, citando il titolo dell’album del ritorno in duo (“Everybody Loves a Happy Ending”, 2004) Per ora ci basta tornare a rimettere su quell’album non impeccabile ma cristallino nella sua voglia di rivalsa che è “Elemental” e dire che, sì, dei due ci è sempre stato più simpatico Orzabal.
(Paolo Bardelli)