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Ho da sempre deciso di trattare, forse ingiustamente, Kalporz come una specie di diario personale. Questo spazio sembra diventato una fucina in cui forgiare esperienze e sensazioni, più che recensioni fredde. È come catturare un momento in una teca, collegato in qualche modo a un festival o a una traccia musicale.
Questa cosa si amplifica quando mi capita di toccare cose a cui sono più legato, come il Flow Festival. Per il mio rapporto con Helsinki, la città che ormai chiamo casa. Per la relazione intima con quel luogo, Suvilahti, dove il festival prende vita. Soprattutto per via del fatto che questo doveva essere l’ultimo festival a Suvilahti, dove costruiranno un nuovo centro culturale – orrendo, lo definirò senza mezzi termini. In realtà, per via dei ritardi nei lavori, pare questo sia stato un Addio Pt.1, adeguandosi al trend cinematografico degli ultimi anni di dividere le cose in due parti.
Essere in un festival che raduna 30mila anime al giorno senza che si intreccino i fili del disagio, come spesso avviene altrove, è un inno all’organizzazione: acqua a flusso gratuito, bagni senza code da guerra, token, braccialetti elettronici ed altre amenità non pervenuti.
Purtroppo quest’anno, per motivi di jetlag e personali, non ho potuto ripetere la tre giorni come l’anno scorso. E sanguinosamente ho perso l’occasione di vedere due artisti che ho in bucket list da veramente troppi anni: Kelela e Kaytranada. Li nomino comunque per dovere di cronaca e come testimonianza della qualità della lineup del festival.
Il giorno successivo, mentre la maggior parte dei presenti è giustamente rapita da Lorde, io vedo una stella diversa. Mi calo per una volta nei panni del fiero nazionalista e ammetto che i Nu Genea hanno davvero offerto qualcosa di speciale. Il loro set è stato divertente, compatto, travolgente. Non so quanti spettatori fossero nella Silver Arena, ma centinaia di persone sembravano impazzite per la band napoletana. Ho anche visto finlandesi cantare (o provare a farlo) le loro canzoni. Una domanda provocatoria: quante band italiane possono vantare un impatto simile?
Passando a una vibrazione completamente diversa, ma non meno intensa, il set di Meshell Ndeceocello è avvenuto nel mio palco preferito dell’intero festival: il Balloon. Il suo soul/rnb delicato, con sfumature jazz, ha riempito l’aria. L’artista è una figura che ha guadagnato una fama ben meritata: il suo carisma e il suo talento sono strumenti rari e preziosi.
Tove Lo, in una Silver Arena fin troppo piena, incendia la scena con un successo dietro l’altro, acclamata dalla sua fanbase devota. E ancora ho le mie perplessità sulla definizione di Tove Lo come “la ragazza più triste di tutta la Svezia”.
Con un’altra svedese si apre l’ultimo atto del mio Flow, accarezzato dalla leggerezza di Seinabo Sey. Ma il sipario si apre in ritardo, a causa di un problema con il volo dell’artista. Qualcuno, con sarcasmo, sussurra “ovviamente è in ritardo, è svedese”. Le rivalità nazionali sembrano essere universali. Nonostante tutto, quello che rimane è il palco, gli accordi e la voce di Seinabo Sey. Tuttavia, anche se la sua bravura e gli arrangiamenti coinvolgenti sono evidenti, il suo live appare un po’ monocorde, come un quadro di colori che non riesce a vibrare completamente. La performance è piacevole, ma non mi rapisce completamente. Colpa mia, probabilmente.
Il live dei Moderat mi affascina e mi trascina. Questa band è un’unità solida, con anni di collaborazione alle spalle, e che -piaccia o no- sa offrire un sound unico. C’è una maestria indiscutibile e, anche se la loro discografia potrebbe non essere indimenticabile, hanno abbastanza brani di rilievo per tenere alta l’energia di un live.
L’attesa cresce ulteriormente in vista del live di Caroline Polachek, reduce da un album che ho ascoltato in loop e che la critica sta lodando senza riserve. Le voci come la sua sono fiori rari, una perfezione tanto evidente da risultare quasi fastidiosa. Eppure, sebbene la sua musica da studio riesca sempre a catturarmi, rimane una leggera ombra di dubbio nella resa dal vivo. Non riesco a individuare precisamente quale sia il punto critico, né in lei né nella sua band. È piuttosto come se qualcosa si perdesse, come se l’energia grezza del palco fosse un po’ addomesticata.
Sudan Archives entra in scena, sebbene mi stia godendo il suo live a metà, perché la mia attenzione viene attratta dalla folla che si raduna al main stage per i Blur. Con il senno di poi, potrei considerare questa una scelta sbagliata, ma il me adolescente, ossessionato dai Blur, mi perdonerà. Riesco comunque a immergermi per un po’ nell’irresistibile energia dell’artista americana. Le sue melodie intrecciano le radici dell’afrobeat con un tocco di moderno soul.
Ed eccoci finalmente ai Blur, la conclusione del festival. È interessante notare che Damon Albarn è tornato al Flow anche l’anno scorso con i Gorillaz. È passato un decennio dall’ultima volta che ho visto i Blur. La mia prima impressione è che la band sia di nuovo in sintonia, il che fa piacere a un fan di lunga data come me. Tuttavia, devo confessare che il loro live non ha avuto l’impatto che mi aspettavo.
Nonostante il pubblico sembri riempire ogni spazio disponibile, avverto un certo distacco. Anche brani come “Song 2” e “Tender” ricevono una risposta più tiepida del previsto, un risultato che mi ha sorpreso. In alcuni momenti, la voce di Damon Albarn sembra faticare e avverto una sorta di stanchezza diffusa nella band. Non è nulla di drammatico, ma quel tocco finale che ci si aspetta da un live di chiusura sul main stage sembra un po’ sfumato.
E così, giunge la conclusione di un altro Flow Festival. Forse questo anno è leggermente inferiore rispetto a quello precedente, ma questa piccola flessione è ben bilanciata dalla bellezza intramontabile del luogo e dall’atmosfera che solo questo festival sa creare. Questo non segna l’addio a Suvilahti, ma piuttosto un arrivederci, un attore riluttante a lasciare la scena. Ora, tutti noi siamo già lì a chiederci quale lineup ci attenderà l’anno prossimo.
(Carmine D’Amico)