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Saranno state pure motivate le polemiche nei confronti di Filippo Facci per quelle sue parole consumate sull’altare dell’indignazione collettiva riguardanti La Russa jr., per altro gettate nell’agone con sprezzo del pericolo e polemica verve; sarà stata pure ragionevole la crocifissione subita in pubblica piazza mediatica per questioni relative alla ex compagna (le cronache parlano di stalking). D’altronde non possiamo farci nulla se proprio l’interessato al Corriere, schernendosi dalle allusioni dell’intervistatore, alla domanda “Mai un pentimento?”, risponde, anarchico e imperturbabile: “Mai”.
Lontani dalle fiamme dell’arroventato dibattito delle settimane scorse, saranno state pure condivisibili le autorevoli opinioni dei commentatori ma guai se noi ignorassimo il Facci cronista, saggista, scrittore tout court.
Autore di libri pregevoli (alcuni dedicati alla giustizia italiana e alla stagione controversa di Mani pulite, come La guerra dei trent’anni), ce n’è uno in particolare che negli anni è diventato un piccolo oggetto di culto presso la ristretta cerchia di musicologi e iniziati, pubblicato più di dieci anni fa e proprio negli ultimi mesi ristampato dalla sempre benemerita Marsilio: Misteri per orchestra, misconosciuto saggio dedicato al mistero che alligna la categoria dei musicisti più sfortunati, quelli dotati di genio.
Facci non è uno studioso, piuttosto un colto autodidatta e un wagneriano irredento, convinto dall’allora caporedattore de Il Giornale Maurizio Caverzan, a mettersi sulle tracce, in giro qua e là per le grandi capitali europee della musica, di quei misteri tuttora irrisolti legati ai grandi compositori del passato: dal transito di Mozart, per citare solo la più congetturata delle morti eccellenti, alla maledizione del virtuoso Paganini, il cui violino sembrava la prosecuzione di trame luciferine con altri mezzi, passando per l’inquietante “cosa” che uccise Caijkovskij, nella città “dove il paradiso e l’inferno si alternano con disinvoltura”, l’inospitale San Pietroburgo.
La galleria d’eccezione (o di folli, per dirla con Nietzsche) che scorriamo tra le pagine, a metà tra archeologia musicale e criminologia d’autore, fu poi pubblicata in un unico volume che, come si diceva, non ebbe granché successo: chissà che i riflettori della recente cronaca non possano riaccendere qualche interesse proprio nei riguardi di un libro che lo stesso Facci considera il suo figlio migliore.
Misteri per orchestra passa in rassegna le traiettorie e i destini di quei musicisti che hanno rivoluzionato la grammatica musicale del nostro Occidente, autori le cui composizioni hanno letteralmente travalicato il recinto del “solo” intrattenimento, colto o popolare che fosse, e sono stati in grado di permeare ogni ambito della vita associata.
Pensiamo a Richard Wagner, accusato da più parti di essere il mandante occulto di ogni nefandezza bellicista del terzo reich, nazista un bel po’ in anticipo rispetto a Hitler (essendo morto nel 1883), ancora oggi inviso allo stato di Israele e bandito da qualunque programmazione teatrale della nazione.
Bellissimo il capitolo dedicato ai vizi e ai debiti che lo tormentarono fino alla fine, al suo temperamento, alla passione politica che coprì tutti i colori possibili del ventaglio ideologico ottocentesco, alla famiglia non poco disfunzionale che gli crebbe attorno date le diverse mogli che il maestro non lesinò di concedersi; infine a Bayreuth, amena cittadina dell’alta Franconia bavarese, dove dal 1876 si tiene in estate il festival che celebra il wagnerismo con concerti ed eventi tutti evidentemente legati all’autore del Sigfrido.
L’indagine genealogica del clan familiare risale ai rapporti e alle compromissioni che i Wagner ebbero con il regime hitleriano, da cui, come organizzatori del Festival e custodi dell’eredità del più importante compositore degli ultimi due secoli, trassero finanziamenti e benefici.
Relazioni con il fuhrer in persona che si concretizzarono in diversi momenti della traiettoria politica del capo nazista; basti citare l’episodio che vede protagonista Winifred Wagner, nuora del maestro in quanto moglie dell’unico figlio maschio Siegfried, la quale nel 1924, con un Hitler alle prime armi in carcere causa colpo di stato non riuscito, aveva passato al futuro cancelliere “ogni genere di aiuti e tra questi la carta su cui scrisse il Mein Kampf”. Così, per dire.
Senza procedere nel disvelamento di ulteriori dubbi e misteri di questa vicenda, per fortuna la musica, parafrasando il compianto, vince sempre sull’invidia e sull’odio: oggi il festival, a cui prenotarsi risulta impervio non poco essendo i tempi di attesa pari a oltre un lustro, prospera più che mai riuscendo a garantire ogni anno esibizioni di altissimo livello, richiamando da più parti una fauna, seppur eterogena, accomunata dall’amore per il verbo wagneriano.
“Il terzo atto del Crepuscolo degli dei è un momento che giustifica ogni cosa, anche otto anni di attesa. Il pubblico è immobile, cristallizzato, parte di un qualcosa che è difficile da dire. Dal golfo mistico (la fossa entro la quale operano orchestra e direttore) riecheggia la musica che secondo i critici musicali resta la più cupa e impressionante mai scritta. La salma dell’eroe, Sigfrido, è riversa per terra mentre il crepuscolo si fa notte e il sipario viene abbassato, la marcia funebre prosegue nel buio totale mentre il popolo di Bayreuth è paralizzato da una commozione stregata, voluttuosa, inebriata dalla violenza degli strappi orchestrali. Poi il sipario si rialza e una luce accecante spalanca il paradiso del Walhalla, il crollo finale, le fiamme, l’estasi dell’annientamento.”
Considerazioni che conducono dritti al mistero più profondo che sembra custodire la musica, quantomeno quella universale: le storie che racconta l’autore, sospese in una narrazione che talvolta sconfina nel noir, non riguardano esclusivamente le rocambolesche vite dei compositori ma puntellano più in profondità la sostanza metafisica di cui è fatta.
Un mistero non meno intricato che riguarda la capacità propria degli esseri umani di ascoltare davvero, di fermarsi di fronte all’indicibile segreto di una semplice melodia, una somma di puro artificio il cui risultato è immensamente più grande e potente.
Allora, forse, il libro andrebbe letto come un’indagine filosofica, giocata com’è su una dimensione ultraterrena, celeste, inaccessibile; una ricerca indefessa per riscoprire un’attitudine che allo stato attuale sembra essere messa in discussione dalla civiltà moderna, per contro votata alla rapida e consumistica fruizione di ogni cosa.
Accettare gli inciampi delle nostre investigazioni, superarne l’eventuale travisamento: Facci stesso, oggetto di feroci critiche nelle scorse settimane, sembra non reclamare altro che una possibilità, intanto di essere ascoltato.
(Alberto Scuderi)