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James Blake, Fabrique, Milano lunedì 18 settembre.
Avevo consapevolmente scelto di non ascoltare il nuovo album di James Blake prima del suo concerto di ieri. Volevo farmi stupire, affrontarlo con la mente aperta, con la volontà di immergermi nel nuovo scenario musicale di “Playing robots into heaven”.
Nella scaletta di ieri, su circa venti brani, quasi la metà deriva dal suo ultimo lavoro.
Il risultato è un concerto spinto, con tantissima elettronica, con sfumature techno da DJ underground che fanno saltare la folla per quasi due ore.
James Blake si diverte a dimostrare che riesce ad essere bravo in tutti i generi, portandoci dentro il suo mondo, quasi come un David Bowie dei nostri tempi.
Non in termini di outfit certo, quello è sempre molto asciutto e volutamente quiet-luxury, ma in termini di vastità di tessuti sonori sicuramente è uno dei più”trasformisti” della nostra generazione.
Dopo feat con Rosalia, album di cover con canzoni di Billie Eilish, produzioni dei migliori artisti Hip Hop Rap mondiali (Beyoncé, Kendrick Lamar), James dimostra che riesce a masticare e dominare anche un concerto di quasi due ore puramente elettroniche.
Canzoni grezze ma suonate nella maniera più raffinata possibile.
Per questa prima data del tour mondiale si presenta accompagnato solo da due musicisti.
Sembrano tre isole sonore distinte, ma in realtà sono legate indissolubilmente da un filo invisibile. Ognuno suona su ritmi, basi, volumi differenti, c’è chi accelera improvvisamente, chi rallenta, chi crea caos, chi crea ordine. Sembra impossibile creare un live simile, ma in 3 riproducono un muro sonoro devastante.
Il chitarrista crea i loop, poi si gira e suona le tastiere, mentre inventa suoni robotici in sottofondo su una specie di enorme futuristico mixer. Ricorda molto Jonny Greenwood. Riproduce suoni del basso sulle tastiere, chitarre in loop che sembrano dei jingle campionati e si diverte ad inserire suoni, a modificarli, a creare connessioni imprevedibili tra tutti i diversi strumenti.
Il batterista usa una drum machine, come se fosse uno strumento del tutto differente da quello che conosciamo, riproducendo perfettamente una classica base sonora da club.
E poi c’è James Blake. Fastidiosamente bravo nel trovare una veste che coniuga una voce angelica, suoni di piano eleganti e svisate improvvise elettroniche.
L’assetto visivo iniziale sembra riproporre i live dei Bon Iver, la resa però è molto più spinta e meno melodica. Sembrano i Bon Iver inquinati da effetti acidi.
Le canzoni di “Playing robots into heaven”, hanno un’ottima resa. “Tell me” è già una hit, pronta per i festival mondiali. “Loading” e “Asking to Break” coinvolgono e divertono il pubblico.
Poi ci sono le hit evergreen: “The Limit to your Love” con uno spettacolo di luci che stupisce e “Retrogade” con il suo coro trascinante.
Poco prima del finale arriva “Godspeed” cover di Frank Ocean. James, nel buio con un faro puntato, suona il piano e canta riuscendo a zittire la folla che fino a pochi minuti prima saltava e ballava.
Ha una voce pulitissima e la gente si commuove facilmente. Con una sola canzone ha dimostrato un’ennesima freccia da aggiungere al suo arco.
Il finale è “Modern Soul”, un brano che si ricollega agilmente con i suoni del nuovo album, coerente con il resto della scaletta.
James Blake riesce perfettamente a valorizzare l’album uscito nelle scorse settimane e si posiziona ancora una volta tra gli artisti più poliedrici dei nostri tempi.
Qui tutte le foto e scaletta del concerto
(Giuseppe Gualtieri)