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Probabilmente era un giorno piuttosto vuoto. Nemmeno ricordo bene dove mi trovassi. Una giornata anonima, di quelle che passano in modo distratto, e che sembrano quasi non avere molto senso. Annoiato apro il telefono e questa “cosa” arriva da me in modo piuttosto violento e senza avvisarmi. Del resto si sa: le belle notizie, così come quelle meno piacevoli, arrivano improvvisamente. Lo fanno per fortuna raramente (non amo molto le cose impreviste) e di solito ciò accade soprattutto in momenti come questi, così vacui. E quindi eccola. Una macchia rosa intravista di sfuggita e dispersa nello scrolling. Mi blocco. La macchia rosa rapidamente muta, i contorni si definiscono, fino a quando compare finalmente uno strano volto. La faccia è un po’ stravolta, gli occhi bianchi rivolti all’indietro e deformati dalle dita delle mani, che poggiando sulle guance, li trasformano. È un bambino. E sta facendo una smorfia. Loro si chiamano Liquami e sono quello che, in gergo tecnico da critici musicali della domenica, si direbbe un “supergruppo”. Cos’è un supergruppo? Una band formata da componenti che hanno, ognuno, un loro già solido percorso musicale e creativo. Solitamente infatti ogni elemento proviene da una band, più o meno importante, diversa. Difficilmente, ma non impossibile (non sarebbe invero la prima volta nella storia della musica) il nuovo gruppo diventa con il tempo anche il progetto principale di ogni componente. Gli esempi sarebbero innumerevoli. Potremmo partire dai Cream e arrivare ai Temple of the Dog. La storica etichetta To lose La Track, che firma il patrocinio di questo disco però, nel caso dei Liquami, sceglie la strada dell’ironia definendoli “tipo gli Audioslave pucciati nel guano”. Ora, tralasciando l’aspetto più formale, stilistico (con gli Audioslave non hanno proprio niente a che vedere – e direi anche grazie a dio) il guano c’è ed è anche ben visibile. Lo sottolineo poi ai deboli di stomaco: occhio perché, nel loro piccolo mondo fotografico dei loro social, ogni tanto troverete pure qualche animaletto che vomita, liquami appunto.
A un certo punto però qui non ha senso dilungarsi. Non lo fanno loro, che sono dotati di una sprezzatura che ce ne fossero di così sulla nostra scena. Quindi non vedo perché dovrei farlo io. Otto tracce infatti. E fulminanti direi. Di quelle che quando inizi ad ascoltare è ormai troppo tardi. Vi assicuro che è così. Praticamente all’istante si viene catapultati in un ambiente che per chi segue già i nostri nei loro progetti principali risulterà essere subito familiare. Come ci si ritrovasse in un posto dove solitamente si sta bene. Il locale preferito, il bar sotto casa, il parco con le facce di tutti i giorni. In Prodotto tipico si incontra subito la non semplice tematica di tutto il disco. In questo caso siamo in viaggio, metaforicamente perché il disco potrebbe sembrarlo, ma anche realmente poiché a quanto pare il personaggio si trova in aereo. Io alla frase “Ogni volta dico che non volo più con Ryanair” ho riso. Ho riso perché è una frase vera. Ed è proprio questo pregio meraviglioso che traspare dalla prima traccia, la totale e disarmante sincerità che scaturisce dalla loro musica. La stessa sincerità dei bambini, quella pura, a volte quasi fastidiosa, di quando vogliono dirti la verità a tutti i costi, anche quando potrebbe fare male. E vengono un po’ i brividi quando senti “Cosa fanno se ora prendo e me nе accendo una qui?”. Esatto, la disobbedienza, proprio come quella dei bambini. Cosa succede se mi metto a fumare qui in aereo? E c’è la sfida aperta tra l’essere socialmente accettabili e corretti e l’ascolto del bisogno reale e immantinente di se stessi. Problema che affrontiamo tutti ogni santo giorno, no? Siamo solo al primo pezzo e considerando che “Prodotto tipico” non è nemmeno la traccia migliore del disco la cosa si fa lunga. Va bene, cercherò di sintetizzare più che posso. Anche se, io lo dico prima, con i Liquami non è facile. Perché i liquami scivolano da tutte le parti. Sono quasi imprendibili, appunto. Non finisci nemmeno di capirlo che parte “Oh pinolo” che è, a mani basse, uno dei pezzi più belli. I suoni da tortuosi si fanno morbidi, quasi cadenzati. Il rapporto stretto tra infanzia e mondo degli adulti si incontra di nuovo nel testo: “Restano chiusi gli infissi ad agosto / Il nostro padrone rifà la facciata / Così la sua casa sarà la più bella / E noi finalmente dovremo lasciarla” ed è stupendo accorgersi come in un testo apparentemente ordinario si nasconda una vera e propria riflessione sulla vita che tutti quanti facciamo, manifesta evidentemente nel nostro quotidiano. La fatica che di tanto in tanto ci fa chiedere: “È una fine di merda oppure no? No, no, no”.
Dopo il secondo e ora quindi del terzo pezzo del disco “Sale in zucca” l’autodefinizione di genere musicale che la band stessa si è affibbiata sul proprio account IG di “Shitgrunge / Sludgepop” risulta ancora più chiara e lampante. Si segnala qui l’incantevole finale con le parole “Dannato il giorno in cui” che si intreccia a un’altra frase, che suona come un autosabotaggio e un’autocritica violenta “Non ne fai mai una giusta”, e che si dipana in una sinuosa cantilena in crescendo, di parole che ricordano tanto quelle che ci dicevano i nostri genitori quando eravamo piccoli ed erano arrabbiati con noi per qualche marachella. Non illudetevi però. Non c’è tregua in questo disco. “Una volpe, una lince, degli elefanti”, uno dei pezzi migliori di tutto l’album, comincia in cui il viaggio fatto di suoni tortuosi e rumori sgraziati (ma perfetti) attraverso un’infanzia che non c’è più raggiunge il suo apex. Un solidissimo brano in cui “la nostra canzone” che cantano i protagonisti del testo, altro non è che la nenia che ci facevano cantare (a tutti io credo) all’asilo: “Un elefante si dondolava / Sopra il filo di una ragnatela”. In poco tempo si intuisce, con stupore, che i due soggetti descritti nel brano sembrano essere un padre e un figlio, perché “Ti ho portato ovunque, con il vento e col sole / Quattro mani e un manubrio” e ancora “Gambe in spalla figliolo, cantiamo a gran voce / La nostra canzone”, si capisce infatti che il piccolo è seduto sul cannone della bici, tra le braccia del padre che conduce. E commuove il verso successivo dove “Non la tieni al guinzaglio una volpe / Non in gabbia la metti una lince” che sa così tanto di abbandono futuro da parte del piccolo verso il più grande o del grande, per l’ovvio ciclo della vita, verso il più piccolo. Si presagisce, come lo si presagisce spesso nella vita purtroppo, che arriverà un giorno in cui forse non si incontreranno mai più.
Stupisce in questo primo disco come ogni componente sia riuscito a scagionarsi dalla propria realtà, mantenendo comunque intatto il proprio stile (per esempio le voci di Jacopo dei Fine Before You Came o di Luca Generic Animal o ancora lo stile di Marco Giudici con Any Other. Ed ecco infatti “Le verdure fanno bene” struggente sad song tutta fatta al piano, in cui è forte ancora la componente infantile: “Credo ai vampiri, agli zombie / A babbo natale, ai pirati” e “Ho fatto il bravo quest’anno / non ti scordar di me” gestita magnificamente da una voce davvero toccante. In tutti questi brani la nostalgia per l’infanzia non è quella dell’adulto che non vuole crescere, bensì dell’uomo che, proprio perché è cresciuto, ha compreso che forse molte delle cose che pensava da bambino andrebbero riprese, riscoperte, ritrovate. Oggi infatti è come fossimo circondati non più da esseri umani, ma da tante “statue, che vedo sono prive di sguardo”. Perché, proprio come quando eravamo piccoli, e lo sapevamo bene, “la vita comincia dove comincia lo sguardo”.
Ed è quando hai ancora le lacrime agli occhi che parte un altro pezzo enorme “Giovedì al fiume”, in cui il muro di casse distorte si fa ancora più spesso (dio quanto ci piace), e si mescola alle parole forse più criptiche ed ermetiche di tutto il disco. Stralci di luce ci fanno capire che siamo davanti a un qualcosa che non può essere letto con semplicità, anche per colpa delle profondità toccate. E non si resta indifferenti ascoltando “Dimostra che mi ami, che vuoi che stia bene / Ricorda che ti devo tanto, non basterà una vita”. Le voci ora cupe ora acute di Jacopo Lietti e Luca Galizia, che di tanto in tanto si intrecciano tra loro, avvolte nella solida cattedrale di suoni creati da Marco Giudici, Tommaso Renzini e Giacomo Ferrari non ci danno respiro.
La fine di questa, che mi sento di definire senza remore, piccola meraviglia inattesa è affidata a due brani. Il primo “Dormon le case” in cui una volta di più nessun componente si snatura e si riscontra di nuovo il perfetto miscuglio di tutte le singole esperienze che ben conosciamo.
Concludo invitandovi ad ascoltare l’ultimo pezzo “Una cosa importante” per almeno tre volte. Perché, come per le cose più belle, vi renderete conto che dettagli nuovi affioreranno dopo ogni singolo ascolto. Cosa volete che vi dica, di musica nuova e di artisti e band neonate ne escono e se ne creano ogni santo giorno a centinaia di migliaia. Eppure tanto lo sappiamo tutti. Quando qualcosa ha valore, è inutile, possono far di tutto per fregarci, ma è così, noi ce ne accorgiamo subito. Annusiamo il falso e il finto quando è lontano ancora anni luce.
Dopo le splendide ninnenanne, le cantilene, e le nenie di questo disco (da cantarsi al parco giochi, in case precarie o dove vi pare a voi) una cosa importante, appunto, resta. Di tutto quello che incontri nella vita, tutto quello che ti capita, “Dei film brutti e delle bestie / Selvagge incontrate nel bosco” (quasi fosse qualcuno di più grande di noi e che ci vuole molto bene a dircelo), di qualunque cosa insomma che incontrerai o ti capiterà: “Tieni a mente una cosa importante / Se adesso tu dormi domani sei forte”.
79/100
(Natan Salvemini)