Share This Article
Penso che però sia pacifico affermare che i Chemical Brothers non sono mai diventati i Red Hot Chili Peppers (un nome tra i tanti che potrei fare). Nel senso che non hanno mai resettato la loro pianificazione su un mainstream pop (neanche dopo il successo, mainstream veramente, di “Surrender”). Certo, ci sono stati lavori che li hanno visti un po’ sbilanciati sull’acchiappare ospiti di pregio e “di grido” ma anche quella fase è passata (e forse aveva anche un po’ “stancato” parte del pubblico).
Va anche detto che i Chemical Brothers non sono diventati neppure i Daft Punk, pur non contando meno in quanto a peso e valore nella musica “da ballare” dell’ultimo trentennio. Il confronto con i francesi è abbastanza istintivo e rivela, beffardamente, come i Chemical Brothers risultino meno iconizzati proprio nel loro “non centellinarsi”, quasi come se l’affidabile continuità si sposasse un po’ male con il mito. Come se le manciate di canzoni di rara ispirazione (ce ne sono almeno 5 in quest’ultimo) fossero una formalità da ufficio. Troppo a viso scoperto, troppo visibilmente attempati, troppo pochi i capelli (quelli un tempo lunghissimi di Tom). Troppo ordinari loro e troppo prevedibile l’onesta riuscita di un loro disco. Non è nemmeno una notizia.
Ora, sia chiaro che non possiamo ascrivergli una qualche rivoluzione dai primi anni 2000 ad oggi. Qualcuno direbbe che non si sono reinventati. E io, tanto per cambiare, non mi trovo d’accordo neanche su questo. Credo piuttosto che abbiano inglobato le sonorità e gli umori dei vari tempi in modo sempre bilanciato (anche attraverso le collaborazioni, sì). Insomma, sia sul versante ritmico (breakbeat, techno, house e non solo) che su quello marcatamente melodico hanno sempre posizionato un contrappeso pesante fatto del loro proprio, specifico linguaggio. E la cosa viene rispettata nel nuovo album ancora più che nel penultimo “No Geography” che ogni tanto azzardava qualche fuga di lato.
“For That Beautiful Feeling” è pienamente riconoscibile anche per ciò che riguarda la sua architettura. Nel senso che concede spazio alle aperture melodiche (“Skipping Like A Stone” con Beck) ma si srotola su tutto il ventaglio dei Chemical Brothers fino al registro del rave (“Feels Like I Am Dreaming”). Oppure mescola le carte come Rowland e Simons sanno fare, costruendo certe loro “classiche” canzoni-non canzoni (“Live Again”).
Quindi pescano anche nel patrimonio dei ricordi (propri e di chi li segue da una vita) riuscendo in genere a non apparire pesantemente autocelebrativi. Per esempio lo fanno in “The Weight” che in modo evidente riecheggia i primissimi lavori ma, vediamola da un’altra prospettiva: tornare su certi schemi e uscirne con una canzone che funziona come questa è la prova di una solidità esemplare. È la prova di una sicurezza che non ha a che fare (solo) con la comfort zone. È un dribbling (riuscito) a soli tre metri dalla propria porta.
Se mi domando, di nuovo, come in partenza, che bisogno c’è oggi dei Chemical Brothers, credo di aver chiara la mia risposta. Credo che dal ’95 in poi abbiano provato a farci trascendere (a noi pubblico) etichette, contesti, settori, appartenenze. Loro, come altri, hanno sostanzialmente detto che la musica va “rimasticata tutta” come campo totale ma con gli strumenti e i mezzi che ognuno sa usare meglio. Credo che continui ad essere prezioso chi si muove in quel solco, specie se l’ispirazione non è ancora evaporata. Che poi, state sicuri che i Chemical Brothers il giorno in cui non servono più se ne accorgono prima di noi.
(Marco Bachini)
*immagine in evidenza di Hamish Brown