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BRIAN ENO & BALTIC SEA PHILHARMONIC, “Ships”, live al Teatro La Fenice, Venezia, 21 ottobre 2023
Arrivo a Venezia e uscendo dalla stazione mi ritrovo davanti al solito meraviglioso spettacolo che solo chi vive vicino alla città lagunare può concedersi il lusso di considerare banale: l’immagine del Canal Grande e della cupola di San Simeon Piccolo. Un impatto con la bellezza che schiude un’immagine interiore che personalmente conservo dentro di me da quando ero bambino. E’ una giornata strana e sono decisamente nervoso; eppure sono a Venezia per un motivo decisamente piacevole, per un evento, organizzato dalla Biennale Musica, del tutto insperato. Insperato – scriviamolo: ai limiti dell’impossibile… – fino ad oggi, quando di scena in laguna ci sarà nientemeno che Brian Eno. Proprio lui, il non-musicista, il padre dell’ambient music, il Da Vinci del rock – a parte la prima, tutte definizioni che gli hanno affibbiato altri… – ; lui, che di concerti ne avrà fatti forse una decina in quasi cinquant’anni di carriera. Brian Eno a Venezia: sinceramente, stento un po’ a crederci. Sarà per questo che sono nervoso e che ad ogni passo su e giù per le calli bagnate dalla spuma di canale – è giorno di acqua alta – mi sembra di stare sospeso a mezz’aria – il che sarebbe ottimo per non bagnarsi i piedi.
Camminando tra le viuzze del capoluogo veneto, tra il brulicare impari di residenti e turisti, il preoccupante caldo afoso e un breve scroscio di pioggia, e una sosta Eno-gastronomica (!) ad un bacàro, arrivo con calma alla corte del Teatro della Fenice. Preso posto in una sfarzosa balconata laterale, attendo con fremente curiosità – e vertigini: siamo in alto.. – che si sveli una serata che, per la sua straordinarietà, assume il fascino del mistero. Sono le 20, inizia il concerto: il buio cala sugli stucchi dorati della Sala Grande.
Ed è dal buio che emergono i primi suoni, fatti di bordoni, trapestii, sussurri: è il riarrangiamento orchestrale dell’album “The Ship”, disco di Eno del 2016, ispirato alla vicenda del Titanic, alla Prima Guerra Mondiale e al rapporto tra l’Uomo e il Mondo. Sul palco, la Baltic Sea Philharmonic, condotta dal direttore Kristijan Jarvi – già braccio destro del rinomato direttore d’orchestra finlandese Esa – Pekka Salonen – che durante il concerto si rivelerà una figura a metà tra il direttore d’orchestra e l’officiante, dirigendo con fisicità passionale un’orchestra di musicisti giovanissimi che suonano in piedi e camminando per il palco, il tutto rigorosamente senza spartito. Oltre a loro, ci sono il chitarrista Leo Abrahams, l’ingegnere del suono Peter Chilvers, l’attore Peter Serafinowicz, la cantante Melanie Pappenheim e lo stesso Brian Eno, che ci tiene a mischiarsi tra i componenti dell’orchestra, stando ben dietro gli orchestrali, che si prendono il proscenio. Ma la voce del compositore di Woodbridge emerge dalle nebbie strumentali – e fisiche: il palco è avvolto nel fumo – dopo pochi minuti, baritonale, calda e pastosa nonostante l’età; sarà il collante dei vari momenti del concerto, voce cantante di una performance musicale che costruisce, con calma e pazienza, un abisso sonoro dove gli spettatori vengono immersi pian piano. Il fremito che attraversa la platea al realizzare che si, è proprio il riverito musicista inglese a suonare lì a pochi metri è palpabile, e gli interventi di Eno sono onde spumose in un mare in costante e brulicante movimento. Difatti l’orchestra – illuminata solo a tratti dalle luci – lavora su dilatazioni e orizzonti musicali ampli; ma non sfugge come tra violini, viole, contrabbassi e soprattutto fiati, sotto quell’apparente calma tenebrosa fatta di abissali bordoni minimalisti, vi sia un borbottio di rigogliose trame sonore, essenziali per la dinamica della suite. Pian piano si apre davanti ai presenti un mondo acustico denso di riverberi di tempi lontani, ma ancora vivi nel ricordo; e la scelta di affiancare – con grande equilibrio, pur nella sua semplicità – all’elettronica di Eno il calore degli strumenti acustici è una gradita sorpresa. L’ambiente viene inondato di un suono dai contorni primgeni, che sgorga con un abbandono ineluttabile ma vivo, la cui mistura elettroacustica lambisce i confini della classica contemporanea e che dona un timbro sanguigno e emotivo alle composizioni eniane
Questa lenta immersione nell’altrove dura tre movimenti (nel terzo compare, caldamente spettrale, anche la voce dell’attore britannico Peter Seratowicz), per poi prima esplodere in repetini scoppi dinamici che investono il Teatro di lampi di luci bianche; improvvisamente, il suono si apre come un cielo dopo la tempesta: emerge un beat dimezzato e Eno intona“’I’m Set Free” dei Velvet Underground, corale che schiarisce l’atmosfera e guida gli animi verso percorsi di serena beatitudine. La traversata è compiuta. la nave di Eno è riemersa nell’oggi dalle profondità dove gorgogliava.
Sono passati 45 minuti e di strada, pur stando seduti nelle nostre poltroncine, ne abbiamo percorsa parecchia: ma Eno non ha intenzione di fermarsi e, dopo la suite di “The Ship”, comincia a pescare da quello sterminato mazzo di carte – oblique – che è il suo repertorio più o meno storico. Ed è qui che, senza colpo ferire e annunciandola con discreto humour, l’artista di Woodbridge cala l’asso con quella “By This River” che è sicuramente il suo pezzo più celebre; una ballata dai toni metafisici, qui arrangiata con l’arpa a prendere il posto del pianoforte originario, le commistioni di fischi e field recording ad arricchirne le sottotrame strumentali e i pizzichi degli archi che rimbalzano tra i loggioni del Teatro. Su questo tappeto, paradossalmente parco e sfarzoso al tempo stesso, si posa la voce distaccata ma gentile di Eno, intenta a descrivere un piccolo momento privato di tanti anni fa, oggi proiezione di meditazioni e contemplazioni – e forse anche tenerezze – di tutto un pubblico.
Seguiranno poi l’arrabbiato monito per il futuro di “Who Gives a Thought?” e il finale di “Making Garden Out Of Silence”, una bruma strumentale fitta e senza scampo – forse il momento più ardito del concerto – che si dipana tra corde tese, silenzi gravi e gocciolare strumentale, con il tutto che si risolve nell’alba post-apocalittica di “There Were Bells”, altra presa di coscienza baritonale di un nostro futuro possibile se dominato dall’incoscienza. Tra questi tre brani, tutti provenienti dall’ultimo disco di Eno, “ForverAndEverNoMore”, c’è spazio per “And Then So Clear”, autentica perla nascosta del catalogo del Nostro e ripescata a sorpresa; inizia con una lunga progressione cadenzata ad opera dell’orchestra, che suona e si muove a piccoli passi, per poi cedere spazio alla voce di Eno trattata al vocoder; è un turbinio di palpitazioni, spinto da un raddoppio ritmico (con le percussioni suonate dallo stesso Jarvi), inframezzato dagli squarci delle trombe e dei fiati, per arrivare al finale prepotentemente soave di un coro a due voci contornate da caldi bordoni di bassi e synth. E’ il più classico dei climax, la cui forza, semplice ma spontanea, lascia sedotti gli ascoltatori, ormai definitivamente rapiti – e qualcuno pure commosso.
Applausi scroscianti, inchini e Eno visibilmente diviso tra l’imbarazzo e la soddisfazione. Le luci si riaccendono: abbiamo assistito ad uno spettacolo poetico e crudo; posto fuori da un tempo e un luogo ma al tempo stesso fondato sul passato, ancorato al presente e teso al futuro; emotivo quanto razionale; terribilmente e amabilmente umano. Ora siamo riemersi e arrivati in porto, e i dipinti della Fenice, testimoni del passato, ci ricordano che dobbiamo tornare al tempo presente; io e chi mi ha accompagnato in questa avventura usciamo dal Teatro felici e grati di aver assistito ad un evento a suo modo unico e che, lo confesso, per noi era pure un sogno proibito che mai pensavamo di vedere realizzato. Scompariamo tra le calli buie di una Venezia che, se possibile, di notte è ancor più bella che di giorno.
Vengo inghiottito di nuovo…
(Edoardo Maggiolo)