Share This Article
#Lineanota
Giornalista e scrittore tra i migliori della sua generazione, oggi celebriamo l’indimenticabile Edmondo Berselli (1951-2010): emiliano di nascita (esattamente di Campogalliano, in provincia di Modena) e per vocazione, perché in pochissimi hanno saputo raccontare questa regione come lui, facendone una sorta di simbolo e metafora dell’Italia tutta; complice di quello spirito che innerva la nostra grassa e umida terra, nella sua opera l’Emilia diventava un modello da sognare, un’alternativa praticabile, almeno per qualcuno, senza dubbio per noi (a tal proposito, si legga Quel gran pezzo dell’Emilia). E poi che stile, quei periodi cesellati fino all’ultima parola; quella prosa dinamica e così ricca di rimandi alla filosofia più astratta come all’economia, di cui era fine conoscitore; dal cinema alla musica passando per la politica e il calcio. Pochi altri libri, sul pallone, possono annoverare la bellezza e lo spessore del suo Il più mancino dei tiri.
L’alto e il basso, dunque, che si mescolavano eroicamente, riconoscendo all’uno e all’altro uguale dignità, e, tuttavia, senza scivolare nell’indistinto, nel qualunquismo tipico di chi pone sullo stesso piano tutte le umane vicende (un altro, diversissimo da lui, che sapeva farlo era Tommaso Labranca, di cui sarà bene recuperare quanto prima il recente Labrancoteque, Gog Edizioni).
Per anni firma di prestigio per il gruppo L’Espresso e da direttore della rivista Il Mulino, Berselli ha fatto ottima televisione (i suoi servizi dal Po rimangono una delle pagine più belle di questi ultimi vent’anni televisivi), teatro (in compagnia dell’amico Shel Shapiro, dove i suoi scritti convergevano in un viaggio musicale ispirato dai ricordi di un’Italia scomparsa, quella della sua infanzia e prima giovinezza) e tante cose ancora che sarebbe pure superfluo elencare.
Qui, oggi, tocca dire due parole su uno dei libri più significativi della sua produzione, ossia Canzoni. Storia dell’Italia leggera (Il Mulino, 1999) che, a dispetto della distanza considerevole dalla prima edizione, non ha perso un grammo della sua “verità” critica, pur essendo, l’autore, “solo” un curioso autodidatta, dal gusto, se vogliamo, anche generalista.
Ma non inganni questa definizione. Berselli aveva la qualità, oggi sempre più rara, di mettere in relazione il cantante o l’autore con lo spirito del tempo; riusciva, da rabdomante qual era, a trafugare l’insolito da una canzone dimenticata di questo o quell’artista; ermeneuticamente parlando era un genio che illuminava le zone d’ombra.
In Canzoni, seguendo una logica oppositiva molto efficace, scorrono gli ultimi 50 anni di storia d’Italia a partire dalle traiettorie musicali di Adriano Celentano e Mina, Battisti con e senza Mogol, la meravigliosa scena beat degli anni Sessanta, capitanata dai Rokes e dall’Equipe 84, Claudio Baglioni e Vasco Rossi alle prese con l’inevitabile tramonto della politica, senza tralasciare gli anni Novanta e la parabola essenzialmente trash, eppure così emblematica, degli 883 di Max Pezzali e Mauro Repetto (un capitolo, questo, che richiama tanto l’indagine su Mike Bongiorno di Umberto Eco contenuta in Diario minimo).
La prospettiva, si sarà capito, è quella di inserire questi nomi, che della musica leggera rappresentano i pesi massimi (alcuni, seppure da lassù, presenziano tuttora stabilmente nei cuori di milioni di ascoltatori), in una linea temporale che tangenzialmente attraversa il costume, i comportamenti, le ideologie e la vita di un paese, l’Italia.
Forse l’unico del cosiddetto primo mondo che si può raccontare con le parole di un Mogol, specie quelle più dolci, ma rudi e montanare alla bisogna; o con le “mattane” di Vasco, da Zocca, uno che con il chiodo e gli occhiali da sole anche di sera ti parla del nulla convincendoti che sotto sotto c’ha pure ragione; e che dire del “longilineo”, quasi “intellettuale” Claudio Baglioni, amatissimo da tutte le donne solo per delle carezze, dei sospiri, una maglietta fina e delle allusioni che, infine, rimandano più ad un Giovanni Pascoli sempre più crepuscolare, ma con l’aggiunta di un Circo Massimo esaurito e cinquantamila fan in adorazione perpetua.
Si accennava, poc’anzi, a Lucio Battisti. Ecco, lui è un altro che ha cristallizzato, negli anni della collaborazione con Mogol, un mondo ad uso, abuso e consumo di una massa sterminata che nelle sue canzoni ci ha visto sé stessa, le emozioni di tutta una vita. Più complicato è parlare del suo sodalizio con il poeta romano della disgregazione totale di sintassi e senso che risponde al nome di Pasquale Panella, con cui Lucio ha fatto negli anni ’80, dopo un ritiro durato diverso tempo, ben cinque dischi per un totale di quaranta canzoni.
Ma è proprio qui che Berselli devia e ti sorprende. Forse il vero Battisti è questo, dice: uno che si è scrollato di dosso tutte le banalità delle discese ardite mogoliane e ha intellettualizzato i sentimenti congelandone il cuore, decostruito la comunicazione amorosa, rigorosamente tra un uomo e una donna, producendosi in pastiche linguistici inusuali anche per il più radicale degli avanguardisti (all’epoca ne circolavano parecchi). Contro il sentire comune, il nostro sceglie di stare dalla parte di una delle collaborazioni meno “leggere” che il canzoniere italiano abbia partorito. Poi, certo, nel finale del libro ci si concede anche qualche lacrima. L’ultima scena è quella di un Berselli al volante della macchina che lo riporta a casa. E alla radio il Francesco Guccini più romantico, quello di Incontro, pezzo insolitamente conciso in cui il cantautore (da anni esiliato in quel di Pavana) racconta di una ragazza che riappare d’improvviso e con essa la vita di un passato lontano fatto di “stoviglie color nostalgia” dove la nebbia “ci circondava”. Tipico, per un vecchio emiliano come lui.
Il bello di questi momenti, ammette l’autore, è che senti davvero con l’intensità giusta le cose che quelle canzoni volevano dirti, e nelle mille altre volte che le hai ascoltate non hai colto. Saranno pure leggere, certo. Effimere come tanti prodotti dell’industria non solo musicale, ci mancherebbe. Ma questa roba che dice Berselli sulle canzoni, dio mio, ce lo fa rimpiangere più che mai.
(Alberto Scuderi)
Questo articolo appare anche su Astermagazine, per reciproca volontà degli autori ed editori.