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In I Killed Your Dog le avventure sonore di Taja Cheek provano a ricostruire le architetture-simbolo di un mondo ormai distrutto e al capolinea. Cheek cerca di farlo partendo dai frammenti e dalle orme che i suoi due album precedenti, introspettivi e coraggiosi, provavano a rintracciare e a catalogare in modi tra loro differenti. Ora il suono dei L’Rain tenta di farsi olistico, di unire i cocci e unirsi ad altro, di esplorare l’assurdo e il paradossale con il medesimo grado di sperimentazione di ieri e con la consapevolezza che oggi si può solo andare avanti anche quando mai si decidesse di procedere all’indietro.
Se un disco intitolato I Killed Your Dog non può che essere spiazzante sin dalle sue premesse, Cheek concilia magistralmente l’affermazione che rappresenta l’opera con le tinte musicali dei brani in essa contenuti. Provocatorio, addirittura irritante, questo titolo sembra voler mettere in discussione il giusto e lo sbagliato costruendo nell’ascoltatore un sentimento di rigetto e di disturbo, lasciandolo spaventato e confuso. Chi potrebbe fare mai qualcosa di tanto terribile? «It happened some time in my sleep», canta Cheek nella traccia che dà il titolo all’album, aggiungendo, poi, «I felt so sick, one million sighs / Licked the body as I cried», distico che confonde ancora più le acque e lascia quasi esterrefatti. È questo il mood che Cheek vuole plasmare; nel deserto e nello smarrimento crescono i frutti di questo suo nuovo splendido lavoro.
Il tappeto musicale che accompagna “I Killed Your Dog” è alienante ma sorprendentemente rilassante; tuttavia turba, non c’è dubbio, e nel suo incedere distopico le parole sembrano come svuotarsi del loro significato, sciolte in un levigato synth-pop a tal punto da non comunicare più ciò che in effetti significano, e quel «it made me happy» sussurrato a un tratto rende il tutto ancor più surreale e tragicomico. Dai frammenti “eroici” di Fatigue L’Rain si trova a costruire adesso un puzzle senza, però, possedere alcuna foto a cui ispirarsi. Anche qui come nel precedente lavoro non mancano gli incubi avanguardistici che sono veri propri tunnel senza uscita; la poetica del “mosaico in fieri” che guidava i primi due dischi di Cheek prende qui una direzione massimalista, per lunghi tratti addirittura pop, come già alcuni episodi di Fatigue mostravano. È un viaggio musicale stimolante, trentacinque minuti originali e profondamente emozionali nei quali le parole dell’autrice sono al centro del villaggio come mai era stato prima.
Ad aiutare Cheek a rendere così speciale e affascinante questo disco è ovviamente il gruppo di musicisti che lo hanno creato insieme a lei. Versatili, audaci e legati a lei e tra loro da un’intesa straordinaria, questi ragazzi si mostrano particolarmente empatici nei confronti del materiale che hanno contribuito a scolpire. Che si tratti di tappeti di synth ipnotici e stranianti o di scorribande prevalentemente pop o rock modulate su chitarre, bassi e batterie, la band rende ogni istante magico e viscerale. Il singolo “Pet Rock”, che era stato il primo assaggio del disco e che nuovamente addita, nel suo titolo, il mondo degli animali domestici, è ironico e sagace nel suo muoversi in punta di piedi entro i confini di una storia tremendamente agghiacciante: «Like a dead girl with shades on propped up by captors / I’m fire», canta Cheek in un fiume di lava edificato da synth tremebondi e da chitarre demoniache; è musica straordinariamente orecchiabile anche se è rock avanguardistico, post tutto e niente al tempo stesso.
Cartina di tornasole del disco, “Pet Rock” si può leggere anche come una dichiarazione di poetica liberatoria e sfrontata; il tema dell’esclusione e delle diseguaglianze è toccato solo in parte, in maniera estremamente metaforica, ma non lascia spazio a nessuna ambiguità: «I’m invisible / Cut the the bullshit», canta Cheek con aria ironica e beffarda, registro frequentemente utilizzato in I Killed Your Dog e altra chiave di lettura del disco e dell’evoluzione del percorso dei L’Rain.
Sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista lirico Cheek si muove in modo così libero da sottrarsi a ogni tipo di possibile codificazione o semplificazione; lascia che il disco sia pervaso da impressioni e subitanei flash, da sassi lanciati nello stagno che portano con sé riflessi e vibrazioni che devono essere afferrati prima che scappino per sempre, illuminazioni e tentazioni inafferrabili e ostinate che si muovono centripete e non ti lasciano dormire. La splendida “5 to Hours a Day (WWwaG)” ti penetra fin dentro le ossa e corre rapida e sognante come un treno in mezzo al verde; anche qui ben presto le parole finiscono per fondersi e aggrapparsi al rigoglioso tappeto sonoro di synth, chitarre e tromba che le accarezzano e le avvolgono; chiarissime nella prima parte, diventano un tutt’uno con la musica quando si fanno spoken word, ma non sono mai incomprensibili: «You didn’t think this would come out of me», canta Cheek quasi con tono di sfida, per poi procedere con un’altra dichiarazione di rilievo come «Like Jesus, like Santa, like Cleopatra / I’m testing the ghosts, the vultures».
Il disco non si perde mai in percorsi che conducono nel nulla: come nel pensiero greco anche per Cheek il niente non sembra poter esistere se non come assenza di qualcosa. Il concetto di creazione dal nulla, introdotto in occidente dal cristianesimo, contempla anche il non essere, che qui vive, invece, più per privazione e sottrazione di qualcosa che esisteva; se la creazione ex nihilo non è in ogni caso del tutto esclusa, è più dai cocci e dai frammenti che nasce il massimalismo di I Killed Your Dog; è dalle tessere di un puzzle che questa realtà non soltanto sonora si modella, come gli esseri umani plasmati dal demiurgo in Platone. Le canzoni sono trattate come figli: Cheek esplora tanti generi e si dedica a tutto quello che più ama, come evidenziano l’indiavolato R&B che quasi sfocia nel gospel di “Uncertainty Principle” o lo stuzzicante pop postmoderno di “Knead Bee”, per non parlare dell’ampiezza di respiro e di visione di un brano come “r (EMOTE)”, che attraversa tempeste di neve e poi di sabbia prima di raggiungere la sua destinazione, o della conclusiva “New Year UnResolution”, un altro episodio magmatico e vischioso che ti si incolla sulla pelle ancor prima che sia terminato.
I Killed Your Dog è un disco che tocca più argomenti: parla di amore e dei suoi più inaspettati risvolti, una sorta di “anti-break-up” album, come Cheek lo ha definito, della solitudine più fredda e disperata, come quella che imperversa nella caliginosa “Our Funeral”, delle contraddizioni che esistono in ogni cosa e in noi. È nella musica che tutto questo sta perfettamente insieme, compresso e appiccicato come bene non si sa ma straordinariamente solido. « Do you know what it’s like to have nothing, nothing, nothing, nothing?», chiede con insistenza Cheek a un certo punto, domandando poi « Will you forget me along the way?». In questo sottile equilibrio di presenze, di mancanze, di memoria e di incostanza I Killed Your Dog si muove, governato da ironia e da paradossi, provando ad addomesticare un demone.
82/100
(Samuele Conficoni)