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Gli anni ’80 giapponesi hanno consegnato alla storia della musica uno dei momenti pilotali nella formazione della musica ambient. Se di recente ci siamo occupati in questo spazio di comprenderne le radici esperie della musica distesa, il #tbt di questa settimana ha l’ambizione di salpare verso il Sol Levante.
Artisti come Hiroshi Yoshimura, Midori Takada, Satoshi Ashikawa sono figli spuri della crescita economica rampante del Giappone post-bellico, ma producono soundscape introversi ed esteticamente avversi all’immaginario urbano, riprendendo direttamente o simulando il rapporto complesso della cultura giapponese con il mondo naturale.
Un esempio su tutti è “Green” (1986), quinto lavoro del compositore Hiroshi Yoshimura e pilastro fondativo del minimal ambient. Registrato nel trambusto di quella che immaginiamo essere una Tokyo in rapido cambiamento, l’immobilità incontaminata del disco offre una linea di fuga al rumore dei veicoli pesanti, dei martelli pneumatici e del clangore di oggetti metallici che all’epoca avrebbero dominato il paesaggio sonoro naturale della città. Anche la copertina del disco – una Schlumbergera da appartamento splendidamente fotografata – trasmette questa purezza di suono.
Yoshimura identificò il suo lavoro come “kankyō ongaku” (environmental music), che potremmo definire certamente come la versione nipponica dell’ambient ma con un taglio ben diverso: laddove Brian Eno, ad esempio, creava musica per un ambiente costruito e immaginario come in “Music For Airports” (1988), Yoshimura e i suoi contemporanei creavano musica per luoghi estremamente specifici e tangibili.
Un buon esempio è “Surround” del 1986 (presto in ristampa per Temporal Drift), nato su richiesta della società immobiliare Misawa Home e progettato per curare il soundscape delle loro case modello. O ancora il debutto “Music For Nine Postcards” (1982), composto in diretta risposta al Museo di arte contemporanea di Hara. Come Eno però, Yoshimura ha radicato il suo approccio nel concetto di musique d’ameublement (musica da arredamento) del compositore francese Erik Satie, una musica che si inserisce nel contesto sonoro dell’ambiente e che non necessita di un ascolto attento. Eno fece riferimento diretto a Satie in “Discreet Music” (1975), mentre fra questi artisti è stato Satsuki Shibano nel 1983 con “Erik Satie (Francia 1866-1925)” a tracciare un’asse Parigi-Tokyo più esplicita.
Sebbene questi dischi fossero progettati per spazi particolari, erano anche profondamente evocativi. La simulazione di un luogo idilliaco-bucolico è decisamente qualcosa di molto presente in questi lavori, e diventa quasi saturante ritornando a “Green” di Yoshimura. Una posizione estetica degna di nota considerando che il disco è stato composto per lo più utilizzando uno Yamaha DX7, un sintetizzatore comunemente conosciuto per la sua artificialità. “Il DX7 non è affatto uno strumento dal suono naturale, è molto digitale. Il modo in cui riesce a far suonare qualcosa in modo così simile a quello naturale con quello strumento è sorprendente” – afferma Allen Wooton (aka Deadboy), intervistato a proposito del disco per FACT magazine – “è come se qualcuno che avesse studiato il mondo naturale riuscisse poi in qualche modo a replicarne l’estetica”. È interessante notare, a proposito, che il riferimento al colore verde nel titolo del disco rimanda non a una sfumatura cromatica, ma piuttosto sinesteticamente a un immaginario fonetico, un’estensione naturale dello spazio sonoro tramite l’inclusione di suoni naturali nella vita moderna. La stessa copertina del disco recita GREEN come un doppio acronimo: Garden / River / Echo / Empty / Nostalgia; Ground / Rain / Earth / Environment / Nature.
La musica ambient in Occidente è diversa dall’approccio giapponese al minimalismo meditativo. Per l’Occidente la tecnologia è sempre stata un “tentativo di libertà” dalla natura. Questa è l’essenza di un’astronave. Il razzo, il fuoco esplosivo, l’ascesa, la velocità di fuga, l’uscita dalla gravità, la libertà dalla pesantezza terrestre e dalla vivacità incessante della biosfera.
[…] Questo non è lo stile della “kankyō ongaku” e di una delle sue opere distintive, “Green”. Fuggiamo dalla natura, ma lo facciamo addentrandoci sempre più in profondità. Ciò che non viene lasciato indietro è la tecnologia. È tutt’uno con noi e tutt’uno con la natura. Il suono delle foglie verdi che catturano gli impulsi di luce e li fanno funzionare nella produzione di bio-batterie è presente insieme agli effetti sonori generati elettricamente dai sintetizzatori. Questo non è un paradiso new age. È un luogo dove un robot sogna come un essere umano e un essere umano sogna come un robot. L’organico e il digitale, gli uccelli e il mixer di frequenza, il ruscello gorgogliante e il loop elaborato.
(Charles Mudede)
Non è forse un caso quindi se “Green” nonostante sia stato concepito in un periodo di rampante industrializzazione preservi ancora un ottimismo di fondo. Tutte e otto le composizioni di questo album presentano sublimi strati di carattere e toni sospesi con una resistenza minimalista che sopravvive alle sfumature della realtà moderna, ma non se ne lamenta. Un antiluddismo premonitore considerando che fino alla fine degli anni dieci del nuovo millennio i lavori di Yoshimina, Takada e Ashikawa erano pressoché sconosciuti ai posteri e sono risorti grazie all’algoritmo Youtube. Spencer Doran del duo elettronico Visible Cloaks, fra tutti, si è occupato da grande collezionatore di musica giapponese di curare un’incredibile serie di mix per Root Strata.
Per ora siamo inclini a prenderlo come buon segno, visto che il fascino di questi LP ambient degli anni ’80 è la loro attenzione al miglioramento e al cambiamento degli ecosistemi esistenti. Piuttosto che offrire una tregua sotto forma di fuga – come vorrebbe un’interpretazione classica della musica ambient – molti di questi artisti giapponesi praticavano il sound design come un modo per integrare o alterare luoghi fisici in spazi di serenità, quiete e infinita possibilità.
(Viviana D’Alessandro)