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In Antropocene Horror Fabio Malagnini, utilizzando la lente del cinema di genere, tra scienza, filosofia e antropologia, afferma che nelle oscillazioni dell’immaginario possiamo vedere l’umano alle prese con il suo riposizionamento nel mondo: da dominatore incontrastato della natura a soggetto inter pares che interagisce con ciò che lo circonda.
Si prenda Crawl – Intrappolati (2019) di Alexander Aja, appartenente al filone animal horror, dove i protagonisti sono alle prese con un uragano di categoria 5, e “l’acqua ha spinto gli alligatori dentro alle case allagate trasformandosi nella sostanza amniotica del film”.
Qui, è l’uomo ad essere preda e “cadute le barriere geografiche, il contatto con il non umano è inevitabile, mostri o virus si spostano come noi nell’infrastruttura globale che ha riunito i continenti in una nuova Pangea”.
Per ogni capitolo del libro, servendosi di innumerevoli titoli e autori degli ultimi cinquant’anni, Malagnini tratteggia il potenziale di una catastrofe definitiva, dalle pandemie ai sacrifici rituali; da una natura matrigna all’apparizione di insetti giganti e squali insaziabili; dagli scenari orrifici e mostruosi del body horror a quelli del postumano.
Nella quotidiana battaglia condotta dal genere umano per scongiurare l’Apocalisse (dal greco scoprire, rivelare) quella con il mostro incarnato dallo zombie è certamente tra le più significative e una consistente produzione horror si è incaricata di darne prova.
Il padre di questo filone, il cosiddetto zombie movie, è George A. Romero, scomparso nel 2017 in piena attività, che con il capolavoro La notte dei morti viventi (1968) aveva chiarito fin da subito quanto quelle creature fossero così simili a noi (“they are us”, era solito ripetere).
“Con il tempo la condizione di zombie nei suoi film è diventata anche più esplicitamente lo specchio e lo stadio finale di quella umana. Comunque si muoia ci si trasforma in un non morto e chi muore dovrà essere ucciso poco dopo per la seconda volta per riposare in pace. La questione che si pone è quindi la convivenza o, se vogliamo, l’assemblaggio “moltitudinario”, tra vivi e non morti”.
Il tema è al centro dell’ultimo lungometraggio del regista: L’isola dei sopravvissuti (2009) in cui due famiglie irlandesi sono separate da un’antica faida ancora irrisolta a causa del muro ideologico che le separa.
Il padre di questo filone, il cosiddetto zombie movie, è George A. Romero, scomparso nel 2017 in piena attività, che con il capolavoro La notte dei morti viventi (1968) aveva chiarito fin da subito quanto quelle creature fossero così simili a noi (“they are us”, era solito ripetere).
“Con il tempo la condizione di zombie nei suoi film è diventata anche più esplicitamente lo specchio e lo stadio finale di quella umana. Comunque si muoia ci si trasforma in un non morto e chi muore dovrà essere ucciso poco dopo per la seconda volta per riposare in pace. La questione che si pone è quindi la convivenza o, se vogliamo, l’assemblaggio “moltitudinario”, tra vivi e non morti”.
Il tema è al centro dell’ultimo lungometraggio del regista: L’isola dei sopravvissuti (2009) in cui due famiglie irlandesi sono separate da un’antica faida ancora irrisolta a causa del muro ideologico che le separa.
La narrazione sempre più sofisticata operata da Romero delle dinamiche relazionali interne agli zombi ha sollevato diverse questioni, come per esempio quelle dell’intelligenza e della coscienza di queste creature: da prerogative dell’essere umano, soprattutto l’intelligenza “sta franando miseramente alla luce delle scoperte scientifiche, in particolare della biologia e della neurologia, e dei processi nel campo delle AI”.
Gli zombi, dunque, elaborano “quello che per noi resta l’impensato, il preconscio, il sottoscala della cognizione”.
Se anche questo doppelgänger (il nostro doppio) può gradualmente sostituirsi all’originale, l’incontro dell’uomo con esso “pone l’alternativa secca tra estinzione o rinascita”.
Bellissime le pagine dedicate a questa sorta di crocevia terminale: da una parte La ragazza che sapeva troppo (2016) di Colm McCarty, tratto dall’omonimo romanzo young adult di Mike Carey, a sua volta sceneggiatore del film; dall’altra L’ultimo uomo della Terra (1964), tratto dal capolavoro Io sono leggenda di Richard Matheson (la cui ultima trasposizione cinematografica risale alla pellicola del 2007 con protagonista Will Smith): scritto da Ubaldo Ragona e Sydney Salkow, il film è ambientato a Roma tra i palazzi del quartiere Eur, non senza concedersi qualche licenza poetica.
Nell’odierna “società del rischio”, per dirla con il sociologo tedesco Ulrich Beck, laddove l’emergenza è la norma e la governance è caratterizzata da una “biopolitica della catastrofe”, autori come Matheson e Romero offrono soluzioni ben più radicali rispetto alla sola prospettiva di cercare un rifugio sicuro nel mondo, e invitano al definitivo superamento di modelli ormai obsoleti.
Come nel caso del postumano, a conti fatti “un nuovo paradigma ispirato all’ibridazione dei corpi e un’estetica cyborg che vede la carne fondersi al contatto con la materia oggettuale e interagire sempre più intimamente con la macchina”.
Malagnini, già curatore degli scritti di Antonio Caronia (critico e studioso della materia), chiarisce quanto il concetto stesso sia più un processo che un requisito, una definitiva messa in discussione dell’”umano”, inteso “come narrazione antropocentrica di un mondo che si pensava a misura dell’Uomo e che oggi invece sembra sovrastarlo con la sua indecidibile stranezza”.
Due sono i registi che più di altri hanno cercato di misurarsi con la prospettiva postumana al cinema: David e Brandon Cronenberg, rispettivamente padre e figlio.
In una carriera costellata di capolavori imprescindibili, si pensi a Videodrome (1983) o a Crash (1996), l’ultimo film di David Cronenberg, Crimes of the future (2022), “sembra tematizzare gli stessi argomenti di Caronia: in un futuro parallelo, […] per una frazione sempre più numerosa di umani il corpo sta diventando una fabbrica di nuovi organi e di protuberanze tumorali mai viste prima. […] Attorno a questa mutazione, oltre al mondo dell’arte […] si muovono burocrazia (i nuovi organi vanno classificati), chirurghi alla moda (ogni mutazione richiede stile), sette politiche (i nuovi organi sono rivoluzionari) e, naturalmente, polizia e servizi segreti (i corpi mutanti rappresentano una minaccia).”
In un contesto nel quale gli individui sono in grado di digerire solo plastica e prodotti sintetici, adattandosi alla vita di un pianeta assai diverso da come ce lo ricordavamo, il film si presenta come “l’estrema metafora del postumano: l’animale Sapiens evolve nell’imprevedibile interazione tra genetica ed epigenetica, umano e non umano.”
Nelle pellicole del figlio Brandon, diversamente, gli scenari sembrano non essere così remoti ma più vicini al mondo reale.
In Infinity Pool (2023), la storia è ambientata in un’immaginaria repubblica di Li Tolqa governata da una feroce dittatura: le cose prendono decisamente un’altra piega nel momento in cui il protagonista, James Foster (Alexander Skarsgard), che fa parte del gruppo di turisti americani presenti sull’isola, investe e uccide accidentalmente un locale.
Pur essendo la pena di morte la punizione prevista per coloro che si macchiano di omicidio colposo, James apprende che la “legge consente al condannato una scappatoia: clonare un sosia in carne e ossa che condivide ogni ricordo dell’incidente e che sarà offerto al suo posto ai parenti delle vittime per eseguire la condanna. James, scampato all’esecuzione, decide di fermarsi con gli altri turisti. Da una di questi, Gabi Bauer (Mia Goth), con cui ha una storia, apprende che il gruppo in realtà torna ogni anno a Li Tolqa proprio per potersi sfogare, uccidendo il personale locale dei resort per assistere poi al massacro dei propri duplicati. Per completare la sua iniziazione, James dovrà ora uccidere il suo doppelgänger come hanno fatto tutti gli altri”.
Un’incombenza piuttosto gravosa che, evidentemente, non riguarda solo il protagonista di Infinity Pool, ma la società intera, nella quale la carne umana non è che merce tra le merci, legittimata solo dal suo valore di scambio e ridotta a oggetto di contesa. La forza delle opere dei Cronenberg, come di altre menzionate da Malagnini, risiede proprio nella loro capacità di spingere chi guarda a prendere posizione, scegliere di dire le cose e chiamarle con il loro nome, ma soprattutto porsi delle domande che siano dirimenti, che abbiano una capacità intrinsecamente politica di cambiare il nostro punto di vista; di “premere contro qualsiasi confine abbia esaurito la propria utilità”, per dirla con la scrittrice statunitense Gloria Anzaldùa citata al termine del saggio. Che rimane, per così dire, un’opera aperta, volutamente irrisolta e, tuttavia, proprio per il suo carattere incompiuto, in grado di scandagliare territori tanto impervi quanto necessari.
(Alberto Scuderi)
Questo articolo appare anche su Astermagazine, per reciproca volontà degli autori ed editori.