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Quando nell’estate del 1978, due mesi dopo la pubblicazione di Street-Legal, il doppio LP At Budokan di Bob Dylan usciva nel mercato giapponese, il cantautore aveva già completato una tranche di concerti in Europa e si preparava ad attraversare gli States per completare un tour mondiale che alla fine dell’anno avrebbe raggiunto i 114 show. At Budokan presentava una selezione – ventidue in totale – di brani eseguiti da Dylan in due concerti, quelli del 28 febbraio e del 1° marzo, degli otto totali che il cantautore aveva tenuto al Nippon Budokan di Tokyo tra il febbraio e il marzo di quell’anno. Oggi, quarantacinque anni dopo, le registrazioni integrali di quelle due serate sono state remixate, rimasterizzate e pubblicate in un lussuoso (e costoso) box set che al suo interno contiene alcuni poster, fedeli riproduzioni dei biglietti delle due serate, flyers e un libro con al suo interno i testi dei brani di Dylan suonati in quelle due serate tradotti in giapponese e fotografie tratte da quel tour, alcune delle quali inedite.
Il Bob Dylan che si esibisce per la prima volta in carriera in Giappone nel 1978 sta per imboccare nuovamente la strada del cambiamento. I cambiamenti di Bob Dylan non sono, però, mai all’insegna di quel “don’t look back” del quale più volte ha cantato: le sue evoluzioni e le sue rivoluzioni portano con sé tutto il trascorso precedente, lezioni punto di partenza dal quale ricostruire tutto o allontanarsi, ma in ogni caso vive e vibranti in ciò che di innovativo e differente arriverà. Dal punto di vista musicale, scenico e performativo quello che giunge in Giappone in febbraio è un Dylan in pieno “mood Las Vegas”: seguito il consiglio di Jerry Weintraub, che in quello stesso decennio già aveva indicato a Elvis e a Frank Sinatra la direzione giusta per conquistare un pubblico da stadio, di imbarcarsi in un tour che potesse catturare folle e, dunque, fargli guadagnare un più che onesto gruzzolo, Dylan, proprio su indicazione di Weintraub, decide di proporre al pubblico una sorta di greatest hits del suo già allora enorme repertorio, scelta inusuale per uno come Dylan e progetto di fatto non del tutto seguito se si guardano le setlist di quelle intense settimane. Con questa uscita si materializza l’occasione di rianalizzare con la giusta lucidità critica quei live, molto meno mediocri di quanto molti scrissero e, seppur non straordinari, pieni di ottimi episodi.
Il nuovo box set va di fatto a sostituire quel doppio LP, uscito in Giappone nell’agosto del 1978 e poi anche in tutto il resto del mondo sul finire di quell’anno. Pregevole anche esteticamente, il box nei suoi 4 CD (o 8 LP) comprende integralmente quei due concerti, aggiungendo ai ventidue pezzi che erano già stati pubblicati quarantacinque anni fa ben trentasei tracce inedite. E se i concerti della seconda parte di quell’anno, sia quelli estivi europei sia, in particolare, quelli autunnali negli States, videro Dylan e il suo gruppo, che nel frattempo sarebbe parzialmente cambiato, esibirsi con una incisività e una convinzione ben maggiori rispetto a quanto era accaduto a Tokyo, come testimoniano i tantissimi bootlegs – purtroppo quasi tutti di media o di bassa qualità – circolanti, anche i tanto vituperati show di Budokan hanno un fascino e una rilevanza tutta loro. Questo box non riscrive totalmente quella storia – i concerti nipponici del ’78 restano show interessanti e a tratti anche trascinanti ma non indimenticabili – ma ci aiuta a valutare, con un piglio da filologici e da storici, la giusta dimensione di quei live, che non meritano certo la severa bocciatura che molta della critica riservò loro al tempo.
Ma torniamo al ‘78. Siamo in un altro anno di svolta, l’ennesimo, per Dylan: il futuro Premio Nobel per la Letteratura è reduce dal biennio dell’incendiaria Rolling Thunder Revue, il tour e carrozzone itinerante ideato dal cantautore che vedeva lui, la sua band e svariati altri artisti, tra cantautori e poeti, alternarsi sul palcoscenico e che si era svolto in due tronconi tra l’autunno del 1975 e la primavera del 1976. Nelle prime settimane del 1978 usciva il film-documentario Renaldo & Clara, quattro ore di nebbiosa avanguardia assemblati da Dylan in persona che mescolavano spezzoni di performance live tratte dalla Rolling Thunder del ‘75 a dialoghi ripresi nei backstage o durante i viaggi di città in città del medesimo tour. La pellicola ebbe una distribuzione limitata e venne presto rimossa dalle sale, facendo strabuzzare gli occhi ai più, sia alla critica sia ai fan. In mezzo, nel 1977, il doloroso divorzio dalla moglie Sara e le relative questioni legate all’affidamento dei figli fecero precipitare Dylan in un periodo di profonda sofferenza.
A inizio anno, dopo che non aveva tenuto alcun concerto l’anno prima, Dylan scelse di ritornare in tour. A un piccolo zoccolo duro di musicisti “sopravvissuti” alla Rolling Thunder, vale a dire Rob Stoner, Steven Soles e David Mansfield, Dylan aggiunse Alan Pasqua, Billy Cross, Ian Wallace, Bobbye Hall, tre eccellenti coriste e il sassofonista Steve Douglas e con loro si imbarcò nel tour nipponico. Tenendo al centro l’idea del greatest hits decise di arrangiare in vesti completamente nuovi quasi tutti i pezzi, anche e soprattutto per dimostrare al mondo quanto poteva essere versatile e variegato il suo sound e quanto quella band fosse in grado di gestire bene la faccenda. Dylan non lasciò niente al caso: anche gli outfit suoi e dei suoi musicisti vennero preparati con minuzia e con perizia: tutti sul palco erano tra loro perfettamente intonati non solo musicalmente parlando.
Gli arrangiamenti dei pezzi scelti per essere eseguiti in Giappone, alcuni dei quali rimarranno invariati per il resto dell’annata, sono pervasi da una affascinante “polvere di stelle” à la Las Vegas che è tutta flash e brillantini. Dylan si muove sinuoso tra classici come “Blowin’ in the Wind”, “Girl from the North Country”, “Simple Twist of Fate” e nella splendida rivisitazione gospel-blues di “Oh, Sister”, tutte cantate con grande convinzione e rese particolarmente efficaci anche dall’ottima coesione tra i membri del gruppo. Molto intrigante è anche la barocca rivisitazione del gioiellino “The Man in Me”, un poetico e surreale folk inciso su New Morning e reso ben più celebre circa vent’anni dopo queste esibizioni dal film The Big Lebowski. Non sono troppo efficaci ma nemmeno da bocciare le nuove forme di “Tomorrow Is a Long Time”, di “Too Ramona” e di “All I Really Want to Do”, brano che Dylan ripropose dal vivo quell’anno e che avrebbe poi eliminato per sempre – a oggi – dalle sue scalette.
Alcuni dei momenti più graffianti e trascinanti dei due show sono riservati ai blues che Dylan inserisce subito dopo il brano d’apertura, una versione strumentale patinata di “A Hard Rain’s Gonna Fall” nella quale a farla da padrone sono sassofono e pianoforte; si tratta di “Repossession Blues” di Roland James per la serata del 28/02 e di “Love Her with a Feeling” di Tampa Red per quella del 01/03. Caratterizzati dalla tipica delivery del Dylan del ’78 nel tono di voce e nel fraseggio, a tratti sembrano provenire da un paio di anni prima e possedere in nuce già alcuni elementi della fase gospel-blues da Born Again Christian del ’79 e della prima parte dell’ ’80 e del ritorno alla “musica secolare” della seconda parte dell’ ‘80 e poi dell’ ‘81. Tra i pezzi più convincenti in questi nuovi abiti appariscenti e un po’ stranianti ci sono “Mr. Tambourine Man” e “Ballad of a Thin Man”, interpretate da Dylan con una verve sanguigna in entrambe le serate. Anche “Like a Rolling Stone” e “Shelter from the Storm” non sfigurano in queste nuove configurazioni, sempre libera e cavalcata la prima, più “posata” e recitata vocalmente la seconda, mentre meno appassionante ma pur sempre coinvolgente e ammaliante è “It’s Alright, Ma, I’m Only Bleeding”, incorniciata da ampie sottolineature da parte delle coriste non soltanto nel refrain e da continui crescendo e calando che “calano” l’originale in un contesto radicalmente mutato. Interessanti sono anche la versione particolarmente crooned di “Is Your Love in Vain?”, che al tempo era ancora inedita, e soprattutto la bellissima e vulcanica “Going, Going, Gone”, con un testo parzialmente riscritto rispetto alla versione pubblicata ufficialmente su Planet Waves. La conclusione degli show spetta a “Forever Young” e a “The Times They Are A-Changin’”, brani simbolo di due differenti fasi della carriera del cantautore, interpretati entrambi in modo molto sentito e appassionato.
Come si diceva, nel corso dei decenni At Budokan ha diviso profondamente la critica: definito da alcuni, sul momento, una ciofeca e da altri, successivamente, un “overlooked classic” senza essere nessuna delle due cose, il doppio live tratto da questi due show, privato della totalità della serata e della consequenzialità originale dei brani eseguiti, diventa oggi freddo, poco utile e totalmente superato da questo box set che, offrendoci i concerti nella loro interezza e con un audio migliorato, rende giustizia a quel più che discreto tour. Benché qualche innovativo arrangiamento lasci un po’ perplessi e spiazzati, nella maggioranza dei casi le scelte effettuate da Bob e dal suo gruppo, coraggiose e al tempo poco decifrabili, convincono e si fanno apprezzare oggi ancor di più, pur non riuscendo quasi mai a cucirsi perfettamente su quei brani. Questo Complete Budokan si configura come una fotografia vivida e sincera di quel preciso periodo, che s’impegna a preservare e storicizzare con quel solito piglio filologico cui l’entourage di Bob Dylan ci ha abituato già da parecchi decenni.
[P.S. Qui sotto e su YouTube potete vedere il video della performance di “Mr. Tambourine Man” eseguita proprio al Nippon Budokan di Tokyo ma in una delle serate non incluse in questo cofanetto, quella del 20/02/1978.]