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Weyes Blood, Alcatraz, Milano, 3 novembre 2023
Un live report a quattro mani sotto forma di dialogo tra due scribacchini kalporziani che alla fine si è manifestato forse più come una corrispondenza: ma ciò è in linea con quanto è Weyes Blood, un’artista contemporanea che avrebbe potuto nascere e vivere nell’Ottocento.
PAOLO: Caro Samuele, far iniziare il concerto alle 20.40 (il mio biglietto di DICE diceva tra l’altro ore 21) mi pare una tassa per chi viene da lontano, ok che Milano si è “europeizzata” ma qui mi sembra che si stia esagerando. Per di più si viene letteralmente buttati fuori un secondo dopo il termine del live nonostante si abbia pagato il biglietto per entrare in un locale e non ci sia scritto che è a termine: io sono dentro, mi volevo bere una birra e manco potevo. A teatro sono più elastici, nel foyer puoi chiacchierare tranquillamente per qualche minuto, almeno. Direi organizzazione pessima, quella dell’Alcatraz e di chi curava l’evento. La gente comunque non è stupida e alla lunga se ne accorge.
Detto questo, che non c’entra con la Divina Weyes Blood, com’è stato il concerto per te? Non so perché quando scrivo di Natalie Mering mi viene sempre da associarla al termine “divina”, per me lo è nel suo essere eterea e svolazzante in quel suo vestito di scena luccicante, con il mantello come una supereroina delle canzoni tristi (l’ha ammesso lei dopo una delle sue chiacchiere tra una canzone e l’altra: “And now back to the sad songs”). A mio parere è da fare un monumento alla sua voce che è patrimonio dell’umanità e dal vivo si dimostra cristallina come su disco, non ha avuto un’esitazione che sia una a livello di intonazione: credo di aver ascoltato poche volte un/una cantante così intonat*. All’inizio del live ha sparato tutte le cartucce migliori, ma del resto la ragazza ha già collezionato una serie di album talmente belli che il repertorio è già di quelli importanti, può pescare dove vuole dagli ultimi suoi tre album e cadrebbe sempre in piedi. Per questo avrebbe potuto anche suonare un po’ di più: io sono un fan dei concerti corti, ma – diciamolo – si è probabilmente un po’ risparmiata e questo anche perché quella band di professionisti l’avrebbero confortata in un live più completo. A livello di “personaggio” mi è apparsa anche un po’ nerd, a pensarci bene, una divina nerd: i suoi dialoghi con il pubblico sull’astrologia (“Sono gemelli ma adesso mi sento Scorpione”), sul fumare erba con la sua band (“Anzi solo io”), mi è parsa un’adolescente un po’ cresciuta che vive in un mondo tutto suo, a 2 metri di altezza da noi però. Mentre canta balla in un modo delicato che potrebbe essere musica classica ma è solo una specie di “io ballo da sola”, quando le si accende il cuore a led rosso in mezzo al vestito (ma se lo aziona da solo, e quindi ha un pulsante incorporato, o ci pensano dal mixer?) è di una innocenza tale che viene voglia di abbracciarla. A livello musicale ha fatto entrare tutti nel suo mondo e a metà concerto io mi ero dimenticato chi fossi, ma avrei forse preferito un po’ più di variazioni, perché sia a livello di interpretazione vocale che di arrangiamento musicale non ha fatto che replicare in maniera pedissequa le registrazioni su album. Ma tu, Samuele, preferisci i concerti che ricalcano il disco oppure le robe free?
SAMUELE: Caro Paolo, quando sul palco sale una creatura divina, eterea e rarefatta come Natalie Mering, che anche tu hai perfettamente descritto poco fa, questa domanda risulta quasi trascurabile, benché sia fondamentale rispondervi all’interno di un live report. Mering, infatti, è così perfetta da non sembrare una creatura terrestre. Uno show senza alcuna sbavatura da parte sua e del gruppo intorno a lei e dalla quasi eccelsa qualità sonora (nonostante l’Alcatraz!): io mi aspettavo proprio questo, e le aspettative alte sono state rispettate, elemento certo di non poco conto in questi tempi strani che sembrano fatti apposta per far crollare molte delle nostre certezze. Mettici poi che a me gli orari mitteleuropei della Milano musicale non dispiacciono, anche se le tue osservazioni in merito a ciò sono giustissime e condivisibili.
Ne discutevamo di fronte a una birra proprio dopo il concerto, ricordi? Cosa pensa un dylaniano come me di show così perfetti e di performance vocali talmente esemplari da ricalcare meticolosamente quelle presenti sui rispettivi dischi in studio? Credo che uno spettacolo come questo, dove ogni singolo “passo di danza” di Mering, ogni sua nota, ogni breve o lunga proiezione sullo schermo dietro il palco, ogni dialogo-inseguimento tra lei e il gruppo è sembrato misurato, studiato, elegante e al tempo stesso perfettamente spontaneo, necessitasse di ciò e non di grandi variazioni sul tema, posto che alcuni arrangiamenti mi sono parsi leggermente differenti, alcuni più pomposi, più “caleidoscopicamente” art pop, altri leggermente più scarni, “cantautoralmente” folk, rispetto alle loro corrispettive rese in studio. Si parla di un’artista versatile che, come hai ben fatto notare tu poco fa, cura ogni minimo dettaglio di ciò che propone sul palcoscenico e di ciò che pubblica su disco: i suoi ultimi quattro LP sui cinque che ha pubblicato finora mostrano una perfezione sonora strabiliante, che fa quasi paura e spiazza per quanto è raffinata e ricercata.
Il concerto di venerdì sera, a mio parere, è come il “mondo Weyes Blood” – inteso non soltanto come Mering ma come l’unione di lei, della band che la accompagna, delle coreografie, dei visuals e soprattutto della loro idea di musica – deve essere. Non potrebbe snaturarsi troppo né concedere ampi spazi all’improvvisazione o a mutamenti esagerati, perché è attraverso questo kosmos musicale e performativo che Mering rincorre quel mondo fuori dal tempo che, come scrivevi tu, Weyes Blood disegna già da parecchi anni, un mondo che potrebbe essere la fotografia nitida dell’universo tra cent’anni come quella di una serata di nebbia e di passione parigina durante gli anni della Belle Époque. Il concerto mi è sembrato uno splendido spartito smussato nei suoi più reconditi angoli e dettagli. Mi ha impressionato quanto Mering e il suo gruppo fossero concentrati e dentro i pezzi per tutti gli 80 minuti circa dello show, cosa anche questa non scontata.
Mi è sembrato che sia i momenti più intimi, romantici e melanconici, tessere di un mosaico cantautorale poetico e ricercato in ogni sua sfumatura, sia quelli più massimalisti e immersivi, rappresentanti di un synth pop che s’incrocia con l’art pop e crea paesaggi sonori di una bellezza mozzafiato, abbiano funzionato egregiamente. La scoppiettante e galattica performance di “Andromeda”, quella tutta paillettes e movimento di “Everyday”, quella quasi commovente di “Something to Believe”, puro pop-poesia (si capirà da qui che Titanic Rising è il mio disco preferito di Weyes Blood benché ritenga il suo successore dello stesso, altissimo livello) mi hanno rapito e conquistato. Altrettanto celestiali sono stati i brani tratti di And in Darkness, Hearts Aglow, che essendo gli ultimi pubblicati in ordine cronologico mi sono sembrati anche i più curati dal punto di vista delle coreografie e dei visuals. “It’s Not Just Me, It’s Everybody” è stata una opener da brivido, “God Turn Me into a Flower” è il futuro del folk-pop per come io credo dovrebbe essere, “Hearts Aglow” è risultata così immersiva e ipnotica da farti crollare dentro di essa, “Grapevine” e “Twin Flame” hanno brillato anch’esse come diamanti nel buio cosmico in cui eravamo precipitati. La conclusione acustica e intima con un brano di parecchi anni fa eseguito su richiesta, “In the Beginning”, titolo già di per sé esplicativo, mi è sembrata la chiusura di un cerchio perfetto. Si è capito, insomma, che lo show mi è piaciuto molto? Musica e coreografie tra etereo e concreto, danze, ombre e proiezioni di visuals a completare l’universo musicale: a te come è sembrato, Paolo, l’intreccio di questi aspetti nello show?
PAOLO: Anche sui visuals mi è parso che Weyes avrebbe potuto curarli di più (sono un po’ critico con questo concerto, ma in realtà mi è piaciuto, eh): io sono per “o li fai o non li fai”. Invece lei ha buttato lì un filmato di cavalli in reverse, immagini del documentarista inglese Adam Curtis su “God Turn Me Into a Flower” (forse la scelta più azzeccata delle tre) e frammenti di film su “Movies” (direi che non ci voleva un genio per partorire questa idea), quindi su “solo” tre pezzi. Perché? O la scelta dei visuals fa parte del tuo progetto di comunicare con il pubblico, o non lo è. Sulle coreografie invece ho amato il suo modo spontaneo di volteggiare, credo che sia parte stessa del tono eterno delle sue canzoni e del suo essere. Ecco, forse avrebbe potuto cantare e volteggiare per sempre, mi ha ricordato vagamente che i dervisci individuano nel ruotare il senso dell’universo, perché tutti i pianeti ruotano e pure le particelle del nostro corpo. Del resto un concerto di Weyes Blood si potrebbe proprio definire un’esperienza mistica.
(Samuele Conficoni & Paolo Bardelli)
Setlist
It’s Not Just Me, It’s Everybody
Children of the Empire
Diary
God Turn Me Into a Flower
Andromeda
Grapevine
Seven Words
Something to Believe
Everyday
Twin Flame
Hearts Aglow
Movies
ENCORE
A Lot’s Gonna Change
In the Beginning