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Ho come la sensazione che la musica, così come il mondo intorno a noi, tra guerre sempre più sanguinose e sempre più vicine, vuoi per la loro locazione geografica, vuoi per le loro cause più lontane e profonde, una crisi sociale ed economica che morde ogni mese di più e una emergenza climatica che come una sinusoide ci segue e si avvicina neanche troppo lentamente, ci stia pian piano sfuggendo di mano. Saranno le tante uscite discografiche, concentrate nei fine settimana, che finiscono quasi per soffocare e immobilizzare chi se le trova di fronte e vuole scegliere, tra le dozzine di ascolti possibili, quali occuperanno le sue future giornate. Tutto normale, direte. Siamo abituati a ciò da più di un decennio: non scopriamo nulla di nuovo. Tuttavia, riflettendoci, ho come l’impressione di starmi sempre perdendo qualcosa, anche se ho ormai imparato a dire tra me e me che non posso farci nulla e che vivo bene lo stesso. Tutto normale, di nuovo. Ho come la sensazione che tanta della musica nella quale ci imbattiamo stia cercando nuove dimensioni e nuovi porti ai quali approdare, zone in alcuni casi ancora “nebbiose” che per noi addetti ai lavori non sono per niente facili da comprendere o da descrivere. Talvolta riusciamo pienamente nel nostro intento, e in quei momenti è inevitabile e comprensibile esaltarsi; qualche volta falliamo, o per un eccesso – pur comprensibile – di ambizione personale o per mancato coraggio o ancora per un nostro intrinseco limite, nel comprendere ciò che abbiamo davanti. Nulla, insomma, che non sia tipico di ogni periodo storico, di ogni annata, di ogni campo artistico: tutto è diverso da ieri e tutto è identico a ieri.
In molti degli album che vedrete in questa classifica si va sempre di più verso una frammentazione o una rarefazione dei contenuti e del suono, forse tesa a rappresentare un’epoca non più tanto liquida quanto piuttosto in frantumi, a pezzetti, che sembra oramai impossibile guarire o aggiustare. In mezzo a un po’ di elettronica, a tanti cross-overs di generi e di moods, a rivoluzioni o riaffermazioni delle tradizioni di generi-cardine come folk, rock, pop e hip-hop, a seducenti sperimentazioni e a tentativi più o meno espliciti di ricostruire da pezzi di vetro sparsi ampie finestre gotiche di melodie pure e finissime, più fili si snodano e numerose chiavi di lettura possono emergere. Il decennio è iniziato con un’annata nella quale gli album più originali e poetici secondo il sottoscritto sono stati quelli di due leggende del cantautorato, Bob Dylan e Fiona Apple, con due dischi stratificati e proteiformi tesi a rinnovare per l’ennesima volta, dall’interno, la forma-canzone, il dialogo coi modelli, l’intratestualità e l’intertestualità. Ci fu molto altro in quell’anno, c’è stato tantissimo nei due anni successivi e c’è stato tanto anche in questo, che forse è stato meno scoppiettante del precedente ma ha in ogni caso prodotto un notevole numero di uscite importanti. Non ho evitato di dare ascolto ai miei gusti, come al solito, ma ho voluto mantenere centrale e preponderante un certo occhio critico per provare, attraverso una lista che è pur sempre incompleta, provvisoria e parziale, a scattare una fotografia sfocata del momento musicale che stiamo vivendo, perché l’arte è sempre, in qualche maniera, una versione (più) onesta e diretta della realtà, quella realtà traballante e terribile che ci sbatte in faccia ogni giorno.
10) Greg Mendez, “Maria”
Breve, incisiva e delicata, “Maria”, in appena due minuti, ci fa entrare nel mondo fatto di ombre e di riflessi di Greg Mendez, cantautore di Philadelphia dalla voce dolce e ipnotica che, giunto al suo terzo album, ha maturato uno stile e una poetica personali e incisivi. “Maria” è una preghiera personale e spassionata che intreccia il sacro e il secolare e che rintraccia qualcosa di divino anche nel profano e nelle piccole cose. «You wanna hear this story about the time we got arrested at a crack den?», domanda Mendez prima che il brano inizi a intrecciare amore, pure follie giovanili e il sospiro di presenze quasi soprannaturali.
9) Joanna Sternberg, “I’ve Got Me”
La voce magnetica e scenica di Joanna Stenberg funziona come un amplificatore delle sensazioni, delle speranze e delle paure che canta. “I’ve Got Me” è il biglietto da visita più sincero ed efficace dell’intero disco della cantautrice newyorchese, una confessione straripante che mette a nudo le qualità liriche di Sternberg. Il folk squillante e polveroso che dà il titolo al disco è una melodia ipnotica e trionfante che si arrampica sugli accordi e sugli arpeggi un po’ spezzati della chitarra acustica di Sternberg e che si perde nei continui saliscendi della voce. «I waste so much time, I mean it / So much time», canta Sternberg con un velo di tristezza e di rimprovero, anche se, dichiarando che «I’ve got me in the morning / I’ve got me in the evening», mette al centro della scena la certezza di poter contare sempre su di sé.
8) Marina Herlop, “La Alhambra”
Difficile da decifrare e da catalogare, l’elettronica sperimentale proveniente da una qualche lontana galassia di Marina Herlop brilla di una luce accecante e lampeggiante nel suo secondo disco, Nekkuja, che è splendidamente sintetizzato dai cinque minuti di “La Alhambra”: nella composizione, che ha al centro sinistri vocalizzi nel quale la lingua dell’autrice catalana si fonde con i motivi percussivi e i synth fino a farsi essa stessa ritmo spezzato e incomprensibile e poi puro e freddo movimento, tenace e dagli sbalzi imprevedibili, che corre e cade, che si rotola e volteggia fino a rarefarsi negli arpeggi di chitarra che la fermano e sigillano. “La Alhambra” è un brano cinematico e centrifugo dentro il quale la sua autrice fa di tutto per mostrarsi nascondendosi.
7) Big Thief, “Vampire Empire”
I Big Thief non smettono mai di sorprendere: non è questa volta la sorpresa di due album nello stesso anno né quella di un album torrenziale di ottanta minuti e venti brani ma di un singolo, “Vampire Empire”, che sembra descrivere nuovi, possibili approdi di una band che fino a oggi ha già esplorato tante direzioni diverse da sfuggire a qualsiasi semplificazione o identificazione. La canzone, suonata dalla band già da diversi mesi prima della sua uscita ufficiale, è stata registrata in uno studio a Barcellona durante il tour europeo primaverile senza overdub o aggiustamenti successivi, una fotografia nitida e schietta di un gruppo che, grazie soprattutto alla sensibilità e alla grinta della sua leader Adrianne Lenker, sembra non voler mai smettere di scoprire e di fuggire.
6) Julie Byrne, “Moonless”
“Moonless” è uno dei momenti più toccanti del terzo disco in studio della cantautrice Julie Byrne, The Greater Wings. Due temi devastanti come l’elaborazione di un lutto e il tentativo di ricominciare a vivere vengono qui affrontati da Byrne con una lucidità e una forza d’animo notevoli. Ci si focalizza su una serie di dettagli molto precisi e li si mette a fuoco fino a perdercisi dentro: quella notte in quell’hotel «I found it there in the room with you / Whatever eternity is», canta Byrne con tono coraggioso e lucido. Il paesaggio sonoro è minimale: adagiata su un sottofondo ambientale di synth particolarmente toccante e in mezzo a note di pianoforte rarefatte e brumose, la voce di Byrne esplora la propria interiorità con una sincerità e una trasparenza cristalline. È proprio attraverso i particolari, sembra dirci, che si deve iniziare a costruire una salvezza.
5) Bjork; Rosalía – “Oral”
La collaborazione tra due mostri sacri della musica, una che lo è da più di tre decenni, l’altra che lo è da pochi anni, si è manifestata nel momento in cui Björk, da tempo attiva nella sensibilizzazione per battaglie come quelle riguardanti l’inquinamento della terra causato dagli esseri umani e il riscaldamento globale, ha voluto manifestare il suo dissenso per l’allevamento intensivo e selvaggio dei salmoni in Islanda; ha rispolverato, quindi, un brano che aveva scritto e inciso alla fine dei ‘90s, in un periodo di transizione importante per lei, che veniva da un capolavoro come Homogenic, ma che non aveva mai pubblicato. Tolta dal cassetto quella registrazione e in parte rielaborata e aggiornata, ha deciso di coinvolgere nel brano Rosalía. La catalana dà al pezzo quel quid che solo la sua voce riesce a costruire; l’amalgama tra l’arrangiamento elettronico dai ritmi balbettanti, che vede la produzione di Sega Bodega, e i timbri di Rosalía e di Björk è curioso e affascinante, un acquarello sorprendente che è tra i migliori pezzi di quest’anno.
4) Fever Ray – “Shiver”
Cibernetica transumana e postmoderna, “Shiver” è la canzone più inevitabile e più in linea con il suo percorso artistico finora che Fever Ray poteva regalarci nel 2023. Karin Dreijer è qui aiutata dal fratello Olof, la cui produzione, tra batterie lisergiche e synth labirintici e irrequieti, è un tappeto sonoro perfetto per piroette vocali angoscianti e disperate. Dreijer è alla ricerca di un qualsiasi tipo di contatto per sfuggire a un destino di alienazione e solitudine che l’autrice prova a combattere e ad allontanare con le unghie e con i denti. È una lotta fisica, aggressiva e soffocante che, nel momento in cui raggiunge il picco in «I just wanna shiver», esplora l’altro corpo, «Just a little touch», in modo frenetico e stupido. Dalla ricerca alla visione, dalla visione al tocco, “Shiver” è una meravigliosa scossa electro-pop che emoziona in ogni sua singola gradazione.
3) Lana Del Rey – “A&W”
“A&W” è l’ennesimo manifesto di poetica – nonché una dichiarazione di intenti e guida stessa di un modo di intendere la vita, il sogno e il desiderio – di Lana Del Rey. «Jimmy only love me when he wanna get high», ripete più volte nella seconda parte di quella che è una vera e propria suite di folk psichedelico nevrotica e tentacolare. Gli arpeggi eleganti e rabdomantici della prima parte sembrano provenire da un’altra epoca; su questi si staglia il cantato sofferto e spesso raddoppiato di Lana, che si dipinge entro una cornice decadente e spettrale, come un’attrice di successo del cinema hollywoodiano degli Anni Cinquanta che riflette sulla sua stardom e che vorrebbe solamente vivere lontana da tutto e da tutti. «This is the experience of bein’ an American whore», ripete con cinismo e altezzosità mentre si muove in un immaginario che pare infestato da demoni oscuri. “A&W” è un folk demoniaco che ci conduce, intorpiditi e confusi, in una Sunset Boulevard o in una Mulholland Drive sepolta nella psiche della sua autrice, senza che vi sia alcuna possibilità di invertire la rotta.
2) Wednesday – “Chosen to Deserve”
Se pensi di meritarmi eccoti servito tutto il mio peggio: questa potrebbe essere la sintesi del contenuto di “Chosen to Deserve”, la rock ballad poetica e suggestiva che è al centro di Rat Saw God, il quinto album in studio dei Wednesday. In essa la cantante e chitarrista Karly Hartzman esordisce proprio così: le cose belle del passato sono già state dette e ora bisogna lasciare spazio al resto. «I’m the girl that you were chosen to deserve», ripete Hartzman nel chorus, mentre una scarica di accordi di chitarra distorti la sommergono e la accompagnano. Quella che potrebbe essere una “normale” canzone d’amore che combatte il romanticismo si fa sin da subito più intrigante e originale di quanto potremmo aspettarci: tra amici che hanno rischiato la vita per le troppe pastiglie, assenze a scuola e notti in bianco o quasi, la narratrice giunge alla conclusione che «Now all the drugs are gettin’ kinda borin’ to me»: è la rivelazione più rock che un brano rock potrebbe mai scoperchiare. Non è la pace dei sensi, però; «Now everywhere is loneliness and it’s in everything», continua infatti Hartzman, descrivendo così un presente che è fatto di luci e di ombre nel quale la felicità è racchiusa in un amore che è forte soltanto se non rifiuta o nasconde i momenti brutti e difficili.
1) Sufjan Stevens – “Will Anybody Ever Love Me?”
La richiesta di essere compreso, ascoltato e amato è un tema ricorrente nella poetica di Sufjan Stevens. Dai suoi brani abbiamo imparato qualcosa di più sulla vita, sulla morte, sulla fede, sull’amore. In “Will Anybody Ever Love Me?”, una domanda lucida e compassionevole che incrocia tutti e quattro questi temi, Sufjan parla a noi come parla a sé stesso. Cosa cerchiamo in noi stessi? Cosa cerchiamo negli altri? Ci spinge verso il prossimo un sentimento di sincero altruismo oppure un sentimento di spietato egoismo? In “Will Anybody Ever Love Me?” Stevens accetta di farsi vittima sacrificale pur di avere qualche risposta. Essere oggetti di un amore immenso e incondizionato è più una cosa per dei che per banali mortali: nel brano Sufjan non può far altro che ammetterlo, ma nel farlo non chiede carità o compassione. Il pezzo, anzi, ricerca in questa inevitabile sensazione di tristezza e di vuoto un modo per farsi serena accettazione di una sofferenza che diventa anche un vivere con più intensità e più coscienza. La drastica e lacerante dichiarazione che anticipa il secondo chorus, «Wash away the summer sins I made / Watch me drift and watch me struggle, let me go», va di pari passo con la convinzione, espressa dal successivo «In every season pledge allegiance / To my heart», che qualcosa rimane e sopravvive anche in mezzo al dolore, alla cenere e al vuoto.
25) Marina Herlop – Nekkuja
In Nekkuja, il suo secondo album, il pop elettronico di Marina Herlop spezza ogni vincolo e catena nel suo tentativo di farsi materia. Resta, però, musica profondamente liquida, prorompente, incapace di mantenersi nel letto del fiume che pare creare, esondando ben presto in altri generi e stili, un fiume in piena continuamente mutevole che non conosce confini. In meno di trenta minuti la compositrice catalana crea una galassia confusa, impaziente, piena di astri e di buio, che rotea continuamente. “La Alhambra” ne è la più limpida e convincente manifestazione, un ostico mosaico dove è proprio l’assenza di prospettiva tipica dell’arte medievale a permettere all’ascoltatore di calarsi in una realtà incomprensibile dalla quale non vorresti più uscire. Affascinante e intricato, Nekkuja è costruito magistralmente sia dal punto di vista lirico sia dal punto di vista musicale: i due aspetti sono di fatto inscindibili e la costruzione ad anello del breve progetto – “Damunt de tu només les flors” è il verso che apre il disco ed è anche uno degli ultimi a essere pronunciato – ne è una testimonianza vivida.
24) Lana Del Rey – Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd
Lana Del Rey scrive un altro grande capitolo della canzone americano. Questo suo “next best American record” è l’ennesima decostruzione e rivisitazione degli States visti da un occhio attento come il suo, tra decadenza, rinascita e melanconia. Il centro del disco è senza dubbio “A&W”, un inno nostalgico e barocco che vuole essere non-generazionale e astorico proprio come è stato “Venice Bitch”, un brano che non sfigurerebbe, infatti, accanto ai migliori momenti di Norman Fucking Rockwell!. Se questo nuovo album non riesce a raggiungere nella potenza lirica e nell’inventiva melodica NFR, cerca però di dialogare più con quello che con i due dischi appena precedenti, gli ottimi album pubblicati due anni fa. È a quel sentimento di longing e a quel senso di frustrazione legata al passare del tempo che ci inchioda alle nostre responsabilità e alle nostre impossibilità che Ocean Blvd si rivolge, aggiungendo nuove riflessioni a quelle condotte in NFR. La già citata psichedelia dinamica e sfibrante, nel quale ammette con vigore di essere preziosa e divisiva, aggiungendo «Ask me why I’m like this / Maybe I just kinda like this» di “A&W”, “Candy Necklace” impreziosita dalla voce di Jon Baptiste e la alienante “Paris, Texas” sono solo alcune delle chiavi di lettura con cui provare a capire com’è maturata Lana negli ultimi anni e mesi; non è facile, però, entrare nelle stanze più segrete di un album lungo, stratificato e strambo come questo.
23) Jeff Rosenstock – Hellmode
Giunto al suo quinto album in studio, il talento cantautorale punk-rock-folk di Jeff Rosenstock si fa ancor più maturo e raffinato: a scariche elettriche di pura adrenalina si alternano momenti intimi e pacati, come dimostrano ottime composizioni come “Future Is Dumb” e “Soft Living”, graffianti e acidissime, la aggressiva e divertita “I Wanna Be Wrong”, impossibile da fermare nel suo porsi e imporsi nei confronti di chi ascolta, per non dimenticare gioiellini come la ballata romantica che è “Healmode” o come “Life Admin”, un rock caracollante nel quale il cantautore si chiede, con piglio quasi filosofico nel mondo assurdo e sottosopra che il brano e tutto il disco dipingono, «I’m wondering if the pizza spot is still worth hating / Got burned last December, and I’m still complaining». Certe piccole cose non sono mai sembrate così grandi e importanti.
22) PJ Harvey – I Inside the Old Year Dying
Poetico ed elegante pur mantenendo un odore selvaggio e primitivo, I Inside the Old Year Dying è un viaggio attraverso i luoghi e le stagioni nel quale PJ Harvey crea un mondo distopico e alienante creato dalla fusione di strumenti folk non tradizionali e spiazzanti, un apparato elettronico dinoccolante e spezzettato e field recordings che costruiscono dalle fondamenta ciascuno dei brani del disco, tutti quanti adattati dal suo poema Orlam uscito nel 2022. A completare questo quadro visionario, misterioso e a tratti estremamente inquietante è il dialetto arcaico del Dorset che PJ ha utilizzato, che, pur lasciando la cantautrice un glossario per comprenderlo, rimane spesso indecifrabile e contribuisce a fare di questo suo nuovo lavoro l’ennesimo passo avanti di una discografia variegata e preziosissima, un album che ci fa precipitare in un futuro che è il rovescio della medaglia di un passato incomprensibile e nebbioso, nel quale soltanto la voce fantasmatica e letale di PJ pare sopravvivere.
21) Jamila Woods – Water Made Us
Jamila Woods ritorna dopo quattro anni abbondanti e dà un seguito al suo magistrale LEGACY! LEGACY! con un disco composito e complesso che riparte da dove Woods si era fermata, carica di un fardello e, per l’appunto, di un’eredità pesanti, per andare in direzioni estremamente differenti pur tenendo a mente ciò che aveva costruito con pazienza e abnegazione poco prima. L’R&B di Woods qui prende una strada parzialmente differente da quella che aveva imboccato prima, accettando di flirtare ancor di più con il pop, come mostra l’ottimo singolo “Tiny Garden”, dalla melodia molto orecchiabile e dalle sfumature a tratti gospel. L’amore è al centro di Water Made Us: lo si trova e lo si perde, lo si incrocia e lo si insegue e soprattutto si riflette su come esso ci guida e ci influenza. «Everybody’s good / No one is», finisce per riconoscere nella bellissima “Wolfsheep”. In “Boomerang”, che ha una cadenza quasi dance, Woods mette in chiaro al suo interlocutore che «If you don’t like me then, you won’t like me now», La presenza di Saba, duendita e Anita Baker impreziosiscono un’opera in cui lo sguardo attentissimo di Woods si concentra su come siamo e su come cambiamo nel tempo.
20) Yaeji – With a Hammer
L’electro-rock soffuso e rarefatto del domani si incarna oggi in With a Hammer, l’LP di debutto di Yaeji, tra nebbia fitta e pulsazioni coraggiose. L’indie rock dell’autrice statunitense aveva dichiarato di voler fare un cantautorato «weird […], that is peripheral to dance music». Il modo in cui ha messo in atto questa sua volontà è l’ossatura stessa di questo suo debutto, che riesce a mescolare frammenti di synth pop, di techno e di ambient dando vita a un indefinibile frullato che è frenetico, alienante e coinvolgente. Yaeji canta in inglese e in coreano e coniuga con attenzione e con maestria le sonorità dei suoi EP e del suo mixtape con elementi innovativi che colorano il progetto di ritornelli orecchiabili e arrangiamenti ancor più raffinati che sanno far propri anche elementi jazz e sonorità del rap. Queste canzoni sono nate dalla rabbia e dalla nostalgia e, stando a quanto ha dichiarato Yaeji stessa, si è resa conto nel comporle che «her anger is subdued and, at times, manifests itself as calm and positive». Tutto questo emerge con chiarezza in With a Hammer, che trasforma emozioni in canzoni e si fa mezzo attraverso il quale riflettere sulla propria esistenza e per provare a superare le crisi e le difficoltà.
19) Kara Jackson, Why Does the Earth Give Us People to Love?
L’album di debutto della giovane cantautrice Kara Jackson è un compendio della lezione blues e folk statunitense calato nella contemporaneità della scena cantautorale anglofona. Jackson è piantata al terreno con radici solide, profonde e pressoché inamovibili, che sottoterra crescono e si intrecciano. In Why Does the Earth Give Us People to Love?, un gioiello di cantautorato luminoso e poetico, la lezione del passato si concilia e si rincorre con la necessità di essere assolutamente moderni. Le tredici canzoni contenute nel disco sono immediate, essenziali e toccanti. Con gioielli come “Lily”, dove Jackson canta di un amore che non sembra riuscire a realizzarsi bilanciando versi cinici come «You and I both know how this goes / I’m going to leave my home» e versi romantici come «There’s a million songs / I could write you up / To extract our love», o come “Curtains”, nella quale si costruisce una climax di malinconia e di rabbia e in cui Jackson confessa che «I’m afraid this game we play / Will kill me еven if I stay», Why Does the Earth Give Us People to Love? si muove di soppiatto facendo convivere ciò che siamo veramente e lo sguardo con il quale guardiamo dentro noi stessi.
18) yeule – softscars
Il pop elettronico e cybertronico di yeule è vampiresco e sofisticato ma anche celestiale e fatato, e nell’autrice singaporiana tutte queste dimensioni, anziché entrare in conflitto, si sfidano, si avviluppano tra loro e si mescolano reciprocamente. softscars è un disco pop che sa essere dolce in alcuni momenti e abrasivo in altri, riuscendo a bilanciare queste due dimensioni in un bipolarismo che pare senza via d’uscita e che è linfa stessa dell’album e della sua potenza espressiva. Tra inquietudini e speranze, tra aggressività e schiettezza, yeule canta di quegli ossimori che sono sostanza della vita di ciascuno, “soft scars”, appunto, che feriscono ma possono anche regalare alcuni attimi di strana e incomprensibile piacevolezza. «Only eyes like yours can see ghosts / Ghosts like me», canta yeule, e ci rendiamo conto che sta parlando anche di noi, mentre i suoni e la sua voce sembrano perdere consistenza e smaterializzarsi proprio mentre ci sembrava di averli finalmente catturati.
17) Yves Tumor – Praise a Lord Who Chews but Does Not Consume (Or Simply Hot Between Words)
Con al fianco come al solito una band di uno spessore e di una solidità eccelsi, Yves Tumor dà vita a un disco nel quale Yves pare cannibalizzare tutti i suoni disseminati nei suoi album precedenti per poi digerirli e rigettarli fuori rivisitati e riformulati. Praise a Lord è qualcosa di nuovo ma è perfettamente in linea con il percorso artistico del suo strano creatore. Come lui è pieno di eccessi, è misterioso e glam, è intricato e vischioso e sembra non curarsi di quelli che gli stanno intorno. Dopo lavori imponenti come Safe in the Hands of Love e Heaven to a Tortured Mind, Tumor non sceglie la strada più semplice ma plasma un progetto innovativo e ambizioso senza dimenticare le lezioni dei due eccezionali album precedenti. Anche qui psichedelia, art rock e new wave sono saldamente avvinghiati tra loro e le trascinanti performance vocali di Yves impastano il tutto in una miscela roboante e sfarzosa. «Thought I found you in my dream», afferma Yves nella tempestosa “Meteora Blues”, mentre in una composizione come “In Spite of War” si fa demoniaco e nottambulo mentre pronuncia versi come «Dressed in the Devil’s clothes / I hear that angels lie, too». Praise a Lord è un miscuglio di generi, umori e tematiche che, proprio come il suo autore, è pressoché impossibile decodificare.
16) boygenius – The Record
«I shoulda left you right there / With your hostages, my heart and my car keys / You don’t know me», cantano Julien Baker, Phoebe Bridgers e Lucy Dacus in “Letter to an Old Poet”, la struggente ballata composta da Bridgers che sigilla The Record, il primo full-length del trio tutto femminile Boygenius che segue il loro convincente EP pubblicato cinque anni fa. The Record non è mai la semplice somma della firma cantautorale delle tre artiste ma una sintesi originale dei loro inconfondibili stili; anche in mezzo a una maggioranza di brani firmati singolarmente da ognuna delle tre, come il rock romantico di “$20” e di “Anti-Curse” condotto da Baker, i fantasmi seducenti di “Emily I’m Sorry” e di “Revolution 0” guidati da Bridgers e le affascinanti confessioni di Dacus in “True Blue” e “We’re in Love”, la peculiarità del sound Boygenius emerge e prevale. Troviamo, poi, pezzi scritti a sei mani, quelle stesse mani che hanno co-prodotto il disco intero, e sono quasi sempre composizioni vulcaniche e centripete, come “Not Strong Enough” e “Satanist”. In The Record tutto funziona a meraviglia.
15) Amaarae – Fountain Baby
Fountain Baby è una gioiosa celebrazione di tutti i sentieri che l’hip-hop shakerato con la world music può prendere oggi. La ghanese-americana Amaarae al suo secondo album in studio fa suo un pop massimalista ed elegante che fagocita e rimescola attraverso soluzioni, arrangiamenti e interpretazioni vocali originali e seducenti. È un album in cui Amaarae si diverte dall’inizio alla fine senza rinunciare a toccare temi di una certa rilevanza né a fare i conti con la propria parte più oscura e nascosta. Dalla volontà di non farsi usare che emerge in “Reckless and Sweet” alle riflessioni approfondite e sincere sul corpo femminile e sulla sessualità che trasudano nello splendido dance-afro-pop che è ““Sociopathic Dance Queen” fino al caos emozionale che è “Counterfeit”, dove, in modo spassoso e cincischiante, afferma che «I just got back to the crib and she already naked / Thirty bitches in the crib and they all getting paid». È un nuovo trionfo di quel dance-pop afroamericano che così tanto aveva bisogno di innovarsi e che con questo disco aggiunge un capitolo importante alla sua storia.
14) Caroline Polachek – Desire, I Want to Turn into You
Desire, I Want to Turn into You è probabilmente il più grande afflato di quel respiro ampio che è l’hyper-pop degli ultimi dieci anni, dell’incontro e scontro dei generi che attraversa e di cui è “portatore sano”, un album che funziona magistralmente sia come progetto coeso ed equilibrato al suo interno sia come una passerella di brani quasi tutti perfetti e fruibili anche singolarmente, destinati come sono a imprimersi immediatamente nella memoria di chi li ascolta. Non è un caso, infatti, che il disco comprenda alcuni singoli strepitosi che l’ex Chairlift aveva pubblicato l’anno scorso o addirittura l’anno prima ancora, su tutti “Bunny Is a Rider” e “Billions”, e non sorprende che sia un ulteriore passo avanti rispetto al suo sottovalutato predecessore Peng: Polachek amplia ancora di più la linfa che scorre nelle venature del suo sound stratificato e roccioso. «Welcome to my island», canta nel synth-pop appiccicoso e mellifluo che apre l’album. È un’isola, quella di Polachek, costruita su misura e a immagine e somiglianza della sua imperatrice, e non vi è alcuna nota, alcun vocalizzo o alcun beat che non sia stato pianificato con maestria e intelligenza.
13) Fever Ray – Radical Romantics
Con il suo ritorno sulle scene nel 2017, Fever Ray ha aperto un nuovo capitolo della sua carriera, che arricchiva ancor di più le già enormi potenzialità della sua elettronica iperrealista e carnale, e con Radical Romantics aggiunge un altro capitolo fondamentale alla saga. Quella di Karin Dreijer, anche qui aiutata dal fratello Olof alla produzione, è musica concreta fatta di ritmi tribali e fisici che sembrano segnalare un rito magico o una cerimonia religiosa arcaica. La evocativa “Shiver” descrive con meraviglia e con tensione la sensazione che si prova nel momento in cui dal cercare e immaginare qualcosa si passa a poter esperirlo, toccando ciò che di corporeo si ha davanti impegnandosi a scoprire, attraverso di esso, un nuovo mondo e modo di pensare e di vivere. L’universo di Fever Ray è pieno di scosse elettriche, forme di vita aliene e mutanti, intorpidimenti e ritorni violenti alla sensibilità e sconvolgimenti interiori che rendono il rapporto con la propria corporeità e con quella altrui una sorta di sfida difficile da intraprendere ma straordinariamente proficua nonché cruciale per sopravvivere. «Love’s a carbon dioxide», confabula Dreijer in un clima intossicante e fumoso, un paesaggio liminare e concreto che Radical Romantics sa creare con maestria ed eleganza.
12) Mitski – The Land Is Inhospitable and So Are We
Nel suo ultimo lavoro Mitski dà vita a un universo meno cupo e barocco di quello disegnato dal suo album precedente. The Land Is Inhospitable and So Are We è un disco pop dalle più svariate nature. Mitski non rinuncia a una certa magniloquenza – un’orchestra, un coro di 17 elementi – interpreta in modo particolarmente sentito e scrupoloso, con la sua voce che diventa a tratti un crooning e che sembra uscire da un’altra dimensione epoca. Mitski dipinge ancora una volta un ritratto pessimista della contemporaneità ma al tempo spesso non ci priva di qualche flebile speranza di rinascita e rivincita. A un anno soltanto di distanza da Laurel Hell, Mitski continua a scrivere della fine del mondo e della crudeltà di noi umani, ma anche della salvezza che possono darci la musica e l’amore. È un disco al suo interno più coeso del precedente, più caldo negli arrangiamenti e più incisivo nelle liriche. Le note leggiadre e conturbanti dell’art pop di “My Love Mine All Mine” sembrano fiocchi di neve che si depositano piano sull’asfalto fino a coprirlo interamente, mentre il folk spoglio e nebbioso di “Bug Like an Angel” ci consegna una fotografia nitida delle paure, degli errori e dei rimpianti con cui troppo spesso non vogliamo fare i conti e che qui Mitski, toccando il tema dell’alcolismo, affronta a viso aperto come in un confessionale. Pezzi come questo, come la tranciante “I Don’t Like My Mind” o come la raffinata “Star” dimostrano che il cantautorato di Mitski non conosce confini o comfort zone.
11) Anohni & the Johnsons – My Back Was a Bridge for You to Cross
My Back Was a Bridge for You to Cross è un disco di una tenerezza e di una sensibilità rare. La tristezza combattiva che Anonhi aveva edificato in Hopelessness, un disco nel quale l’elettronica più dura prevaleva, lascia qui spazio a un pop-folk cantautorale maggiormente in linea con le sue esperienze con i Johnsons, che non a caso qui ritrova. Con la sua band Anohni è in grado di costruire un’impalcatura sonora e ambientale eccezionale. A influenzare Anohni è qui il classico di Marvin Gaye What’s Going On; pur allontanandosi dal sound cavernoso e claustrofobico di Hopelessness, My Back è altrettanto solido e coerente al suo interno nei temi che affronta e nel modo in cui Anohni ne scrive, e anche la sua voce e i testi dei brani sono altrettanto urgenti. Brani più fragili e sognanti, come la ballata glaciale “Sliver of Ice” e la sofferente preghiera “You Be Free”, la traccia che contiene il verso che dà il titolo al disco, si alternano a momenti scoppiettanti come “Can’t” e “It’s My Fault”. La voce di Anohni sa essere tanto un’ancora di salvezza quanto un ultimo, soffocato grido di aiuto che va attentamente ascoltato.
10) Arooj Aftab; Vijay Iver; Shahzad Ismaily – Love in Exile
Emozionante e sofferente, l’avventura nella quale la pakistana con base a Brooklyn Arooj Aftab, il jazzista e pianista Vijay Iver e il polistrumentista di origine anche lui pakistana Shahzad Ismaily si imbarcano è una storia di esilio e di rinascita, di lamentazioni per un amore e per un sogno ormai lontani, di rimpianti opprimenti e di speranze nasciture che crescono col passare dei minuti e che s’incarnano in una musica magica, di caratura quasi religiosa, che si fa pura sensazione e impressione. Con questa missione il trio, che ha registrato gli strumenti – voce, pianoforte e basso – dal vivo in studio, sembra descriverci la propria unione artistica e mentale per mezzo di un linguaggio dalla potenza sonora e immaginifica di una intensità impressionante. Sin dall’inizio del disco, aperto dalla acquosa e intrappolante “To Remain/To Return”, dove la voce di Aftab, che entra dopo un paio di minuti, si insinua come un placido vento nell’atmosfera evocativa ed emozionale creata dagli altri strumenti, la chimica che unisce i tre si manifesta in qualcosa che è simile a un rituale ancestrale, nel quale temi come l’amore, la mancanza e la lontananza, così importanti per Aftab, trovano il loro rifugio più naturale e sicuro.
9) Roisín Murphy – Hit Parade
Hit Parade, come il titolo ironicamente vorrebbe suggerire, è davvero tutto il meglio che la musica metamorfica e rigogliosa di Roisín Murphy può offrire: cibernetica, postmoderna e al limite tra utopia e distopia, essa sa disegnare paesaggi lisergici che quasi mai l’elettronica di oggi riesce a far con così tanta spontaneità e lucidità. In Hit Parade Murphy organizza una sintesi di molti dei percorsi che ha solcato nella sua quasi trentennale carriera finora aggiungendo a questa scacchiera numerosi tasselli rinnovati o inediti. A collaborare con lei c’è DJ Koze, che è in sintonia con Murphy per quanto riguarda le sfumature pittoresche e ipnotiche che qui l’irlandese ha voluto dipingere. Si passa da “Two Ways”, che è puro art pop elettronico vibrante e spiazzante, a “The House”, un robotico funky multiforme e fischiettante, fino ad arrivare a episodi come “You Knew”, levigato e straripante, e “Can’t Replicate”, costruito su un crescendo continuamente mutevole che assume i connotati di una montagna da scalare e che mostra tutta la fragilità e la sensibilità della voce e della capacità interpretativa di Murphy.
8) Kelela – Raven
In Raven, che è soltanto il suo secondo album di lunga durata in dieci anni di carriera discografica, la neo-soul-R&B a sua volta ristrutturata e ricreata di Kelela si fa più pop e manieristica senza perdere nulla della sua potenza e della sua autenticità. Raven è seducente e ammaliante: episodi come “Sorbet” o come “On the Run” ne esemplificano la sua volontà di creare un discorso inedito sul genere tentando di identificarne nuove possibili diramazioni, che si tratti del trattamento della voce, che si fa un tutt’uno con la superficie sonora sulla quale si muove, o degli arrangiamenti quasi divenuti ambient, fatto particolarmente evidente in brani come “Divorce” o “Far Away”. Al centro della scena vi è una potente e stratificata riflessione su cosa significhino per una donna nera di oggi libertà artistica e libertà di espressione lato sensu. Il sound tentacolare e labirintico di Raven, che sembra quasi ingabbiarti di fronte a tali domande, rappresenta la difficoltà che si incontra nel condurre una riflessione di questo tipo. Kelela prova a farlo attraverso una dance music che si fa pop etereo e impronta ormai confusa e sbiadita di un viaggio pieno di ingiustizie e di ostacoli.
7) Sofia Kourtesis – Madres
In Madres, il suo primo lavoro di lunga durata dopo una serie di EP e di singoli eccellenti iniziata ormai cinque anni fa, la peruviana Sofia Kourtesis spezza le reti di tutti i generi che, nel corso dell’album, attraversa, manipola e rifinisce. È un album che risente di tutte le influenze artistiche che hanno ispirato finora Kourtesis e del genius loci di Berlino, la città dove vive, che all’universo dell’elettronica ha sempre dato tantissimo. Madres fa ballare, sognare, riflettere; intriso di una produzione di un’accuratezza maniacale e di una effervescente originalità, che siano registrazioni sul campo – di club notturni, di spiazzanti e commoventi paesaggi marittimi, di proteste di strada in Perù – o beat onirici e avvolgenti fino ad arrivare all’interpolazione di “Me Gustas Tú” di Manu Chao in un brano così schiettamente sociale e politico come è “Estación Esperanza”, uscito quasi due anni fa, che già nel titolo cita il disco di Chao nel quale il pezzo è contenuto, Madres mette al centro tutta la maturità e la versatilità di Kourtesis come compositrice e producer. Costruito intorno a un concetto di world music che ridefinisce e amplia quello che abbiamo avuto in testa fino a oggi, Madres è anche un album che connette magistralmente l’intimo e il globale, trattando sia temi di carattere universale sia questioni personali. Per Kourtesis, infatti, è anche un modo per celebrare sua madre, guarita grazie alle cure del neurochirurgo Peter Vajkoczy, al quale è dedicato un brano. In un certo senso, nel rendere onore alla propria, Kourtesis celebra tutte le madri del mondo e l’idea stessa di maternità, in tutti i sensi che essa assume.
6) L’Rain – I Killed Your Dog
A due anni di distanza da Fatigue, L’Rain e la sua band confezionano un lavoro ancora più ambizioso e intricato, che aggiunge anziché togliere e che impasta e rimodella le figure là dove Fatigue le rendeva ancor più sfocate e prive di contorni. È pop ed è rock, è R&B ed è avanguardia, è acido e corrosivo, è tutto questo e altro ancora ogni qualvolta Taja Cheek decide di rimescolare le carte e prendere una direzione inaspettata o più complicata di quella che sembrava aver costruito giusto un attimo prima. Massimalista là dove Fatigue era minimale, soffocante e degno di un cabinet d’amateurs quando la sua autrice si accorge di voler aggiungere ancora qualcosa, I Killed Your Dog ci consegna un universo frammentato e quasi illeggibile quanto il suo predecessore; la grande differenza sta che qui il marasma e l’incapacità di comunicare ciò che sta succedendo più che nei silenzi e nei cocci di note e di ritmi è fotografato nella sua incessante e infaticabile liquidità, un perfetto ritratto del mondo che sta intorno a noi, che il piano di cui si parla sia sociale, politico o, appunto, sonoro. La mescolanza di generi, dal rock strokesiano della carta vetrata che è “Pet Rock” all’R&B quasi seducente e ammaliante di “Uncertainty Principle”, I Killed Your Dog e il suo apparente non senso, ben rappresentato dal titolo del disco e dal testo e dall’arrangiamento del medesimo brano, ci consegnano una lezione su un futuro imminente che è impastato e fangoso quanto questo presente, pressoché impossibile da leggere o da prevedere.
5) Noname – Sundial
Noname ci dice tutto quello che Sundial significa per lei – e che dovrebbe significare per tutti noi – in “afro futurism”, la più fulgida gemma del terzo full-lenght vero e proprio della rapper cresciuta a Chicago, nella quale ripete che «The sky says I’m still alive». «I got a little bit of love and a couple of friends / Picture me rollin’ up the bud in the south of Sudan», canta nella eclettica e frenetica “namesake”, quasi come fosse invasata da qualche divinità, prima di nominare tre giganti della Black music contemporanea e porre all’attenzione di tutti il fatto che hanno deciso di esibirsi per quello che lei ritiene essere «propaganda for the military complex», vale a dire il Super Bowl. Varietas musicale e critica politica e sociale stanno insieme in un complesso equilibrio che sembra sempre sul punto di scivolare via ma che resta, invece, miracolosamente in piedi dall’inizio alla fine. Non mancano, ovviamente, featuring di fortissimo impatto, su tutti quello di Billy Woods e di Saba, con il primo che impreziosisce con una serie di versi esplosivi e potentissimi la liberatoria e dolce “gospel?”, cartina di tornasole di Sundial e ulteriore passo avanti nella creazione di quella ποικιλία sonora che è così centrale per Noname e che è sempre di più essenza profonda del nuovo hip-hop. Sundial tiene insieme più universi, unendo con una sottile e sotterranea linea rossa la linfa più profonda della torrentizia cultura afroamericana di ieri e di oggi con una critica feroce al consumismo che sta lentamente normalizzando e anestetizzando persino l’arte e la cultura stesse. Sundial è una specie di punto della situazione che investe contemporaneamente il singolo individuo e la specie umana tutta, nonché un progetto di rivoluzione e di rinascita ambizioso e utopico che per Noname riguarda la società intera tanto quanto la sua musica.
4) Sufjan Stevens – Javelin
Javelin è una confessione d’amore, una richiesta di aiuto, una preghiera silenziosa, una confessione gridata. Con Javelin Sufjan Stevens ritorna a parlare della morte e del dolore per chi resta; la malattia e il lutto, che erano anche al centro dell’ancor più efficace e devastante Carrie & Lowell, qui si amalgamano con tutto quello che, anche per un istante solo, può farci dimenticare che la fine è dietro l’angolo. Che si tratti di quella sensazione magica che si prova nel momento esatto in cui ci si innamora, incredibilmente descritta con una precisione lacerante nel magico folk di “A Running Start”, o di un innamorato che «grow[s] like a cancer» sulla pelle o dentro il corpo dell’amato, come a contrastare o a combattere la malattia che avanza, o ancora della silenziosa ammissione – e frustrazione – del non poter far nulla o quasi per fermare un destino infame e tragico, sensazione che è al centro della lunga e spietata “Shit Talk”, o ancora dell’esistenziale e commovente “Will Anybody Ever Love Me?” nella quale Sufjan chiede di essere legato a un palo di legno, di essere bruciato e di celebrare, infine, quel bagliore, Javelin è un viaggio – l’ennesimo – nei meandri più laceranti della vita del suo autore, un viaggio nel quale comprensione ed empatia sono cantate ed esplorate in lungo e in largo.
3) Billy Woods; Kenny Segal – Maps
Due grandi del genere come Billy Woods e Kenny Segal decidono di non far piazza pulita dei loro stili individuali ma al tempo stesso di giungere, lavorando ancora una volta insieme, a un progetto comune che partorisse una terza e proficua via senza che il risultato fosse la banale somma delle loro peculiarità. I beat di Maps sono collosi e tossici e si appiccicano ai vestiti e alla pelle prima che uno riesca ad accorgersene; velenosi e immersivi nel loro incedere rauco e legnoso, creano il sottobosco perfetto per il rapping di Woods. Partecipano al disco anche altri nomi di peso come Danny Brown, Benjamin Booker, Quelle Chris ed Elucid, che con Woods forma il duo hip-hop Armand Hammer che proprio quest’anno ha pubblicato un altro ottimo disco, We Buy Diabetic Test Strips. Le storie viscerali e avvincenti che Maps racconta lo rendono uno dei migliori dischi narrativi del più recente rap. «The land unfold brown and green, it’s a quiet puzzle / Before we take off, I call mom and say, “I love you”», canta Woods in “Soft Landing” con tono confessionale e con voce ferma e schietta, mentre la produzione graffiante di Segal amplifica e taglia come fosse un’accetta la delivery del rapper di Brooklyn, cosa che, qui e per l’intero Maps, danno un risalto ancor più notevole ai testi, nei quali Woods tocca temi a lui cari come l’ansia e il trambusto della modernità e la ricerca di un rifugio dal caos e di una tranquillità che è continuamente minacciata. «I say I’m at peace but it’s still that same dread», canta in “Agriculture”, per poi aggiungere «It’s a funny feeling, like knowing your enemies is in the feds», un distico che esprime perfettamente il fulcro più recondito del progetto.
2) Julie Byrne – The Greater Wings
Un disco sulla morte che è anche un trionfo sulla morte e della morte al tempo stesso, nella naturalità e nella inevitabilità che ciò significa e nella riflessione che ciò induce in chi ne scrive e ne sopporta le conseguenze più drammatiche. Come fu, in una dimensione ancora più totalizzante, Carrie & Lowell per Sufjan Stevens, anche The Greater Wings è per la sua autrice una seduta psicanalitica dalla quale non si esce con risposte chiare e convincenti ma con domande ancor più enormi. Senza sconti, senza filtri e senza fiato è questa terza opera in studio della cantautrice di Buffalo, la più completa e penetrante, nelle cui composizioni sono giunte all’apice la maturità della sua mano e quella del suo canto; Byrne vive i brani come mai era capitato prima e scolpisce i pezzi con una precisione e con una partecipazione tali da renderli tangibili, la sua voce aleggiando come un fantasma in cerca di qualcosa in ogni angolo, complici gli arrangiamenti, che sono lunari e oscuri come in “Moonless”, sognanti e sospirati come in “Conversation Is a Flowstate”, sofferenti e soffocanti come in “Death Is a Diamond”, tutti frammenti trancianti che danno vita a un disco tragico, certo, ma pure pieno di speranze un po’ malconce che di tanto in tanto affiorano e permettono di costruire un’ipotesi anche solo appena accennata di un futuro possibile – e, nel bene e nel male, inevitabile per chi resta.
1) Wednesday – Rat Saw God
Il rock sbarazzino e quasi demoniaco dei Wednesday esplode in tutta la sua magmatica spontaneità in Rat Saw God, quinto lavoro in studio della band del North Carolina e picco del loro percorso artistico finora. Le schegge impazzite dei Wednesday sono prevalentemente frutto del talento compositivo della cantante e chitarrista Karly Hartzman, che in questo nuovo lavoro, più brillante e incisivo dei precedenti, ci mostra quale sia la direzione giusta per l’indie rock statunitense oggi. Il percorso tracciato da Hartzman e dai suoi è quello di un sound sporco cui si accompagnano liriche confessionali e iperrealiste nel quale l’esperienza personale e quella della generazione alla quale Hartzman appartiene si confrontano e si affrontano. Non può che essere il miglior disco rock dell’anno quello in cui le chitarre si amalgamano perfettamente con i ritmi dettati dalla batteria e dal basso e si uniscono meravigliosamente alla voce cerulea di Hartzman, che corre come un treno nei momenti più vulcanici, come accade nella incandescente “Got Shocked”, e accarezza le note come fossero un totem proibito e da difendere nei momenti più pacati e riflessivi, come nelle brevi e ficcanti “What’s So Funny” e “Formula One”. L’episodio più originale e spiazzante del disco è “Bull Believer”, concluso dalla ripetizione infinita di un terribile «Finish him» che sigilla un’odissea di oltre otto minuti. Il grottesco è in vetrina un po’ ovunque, anche se è “Quarry” a guadagnarsi lo scettro di capitolo più assurdo della narrazione, contenendo versi come «[Bobby and Jimmy] have scoliosis from constant slumps in misery» e «Georgie set fire to acres of cotton settin’ off model rockets / The kid from the Jewish family got the preachers kid pregnant», parossismi che Hartzman sembra descrivere quasi fischiettando, considerando tutto ciò come ordinaria amministrazione del vivere in provincia. «I’ll get around to tellin’ you all my worst», canta Hartzman in “Chosen to Deserve”, centro dell’album, dedicata a chi ha scelto di meritare l’amore della narratrice; il brano racconta alcuni dei momenti più imbarazzanti e ribelli della gioventù della cantante per arrivare, infine, alla più mite e sorprendente rivelazione che un disco rock potrebbe mai contenere: «Now all the drugs are gettin’ kinda boring to me».