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What Now, il secondo album in studio dell’ex Alabama Shakes Brittany Howard, è un concentrato esplosivo di cantautorato funky, soul e dance che sa essere sia tenero sia graffiante a seconda dei momenti. L’eredità degli Shakes non è mai troppo distante, ma è declinata in modo innovativo e sorprendente ed emerge in maniera sottile e ricercata. È anche un passo “laterale” rispetto al suo debutto solista Jaime, del quale condivide alcune tematiche e sonorità; marcia, però, in una direzione propria e originale.
«Out there, out there / There’s a love waiting for me»: con queste parole che emergono da una coltre di note pianistiche e di leggere carezze della batteria inizia “Earth Signs” e con essa What Now, il secondo album solista di Brittany Howard, già voce e chitarra degli Alabama Shakes. Il nuovo lavoro segue a quasi cinque anni di distanza l’eccellente debutto Jaime. Proprio partendo da Jaime questo nuovo progetto muove, salpando da un porto variopinto ed emozionante come quel disco fu per issare le sue vele verso terre solo in parte sconosciute, dal momento che la musica di Howard è, sin dai tempi degli Shakes, un concentrato seducente e ben organizzato di alcuni dei generi più rilevanti ed esaltanti della musica Black statunitense, che anche in questo disco sono esemplarmente rappresentante.
Proprio dalla tradizione gospel prende il via What Now, che sa ancorarsi alla tradizione quanto rinnovarsi e rinnovarla di continuo, approcciandosi anche a generi che l’autrice aveva in passato incrociato quasi incidentalmente e marginalmente. Una dance appiccicosa e a tratti alienante permea, per esempio, episodi come “What Now”, singolo uscito nell’ottobre dello scorso anno come prima anticipazione del disco, un’accorata riflessione sull’amore che ne mostra tutte le contraddizioni e ambiguità, perfettamente espresse in antifrasi come «I guess I’m sorry / But I ain’t sorry / Blame it on me». «Head first» ci ricorda Howard nel refrain della psycho-funky “Red Flags”, altro singolo decisamente convincente e capace di muoversi al confine tra più generi e attitudini in meno di cinque minuti. «Don’t think, listen what I’m feeling first», continua Howard, cercando di equilibrare la ragione e il sentimento, tema che nel disco sembra emergere in svariate situazioni e che non a caso è uno dei tratti ricorrenti all’interno di questo nuovo lavoro di Howard.
La componente funky e dance di What Now è non solo aumentata nella proporzione rispetto a quella che emergeva in Jamie ma è anche particolarmente coraggiosa e tenace nel suo provare a reggere il confronto con i modelli cui Howard guarda, che sia Marvin Gaye in un caso, che sia Prince in un altro. Basti pensare alla sontuosità cibernetica del canto liberatorio che è “Another Day” o alla sensuale semplicità che l’arcobaleno di colori che è “To Be Still”, dal sapore quasi biblico e impreziosita da un efficacissimo coro, riesce a trasmettere. La frenetica “Power to Undo” è, in meno di tre minuti, il più sincero e devozionale tributo al genio di Minneapolis che Howard avrebbe mai potuto creare, stretta in mezzo a chitarre elettriche e tastiere gigioneggianti e dinamitiche, che in questo claustrofobico inseguimento danno al brano una spaziosità e un’ariosità magnifiche.
L’universo che dipinge What Now è quello di un ecosistema che prova a sostentarsi da sé e a bastare a sé stesso grazie al suo massimalismo e alla molteplicità che è insita in esso. Non vi è spazio per la paura o per la superficialità, né vi dimora il timore che uno scossone esterno possa rompere questo magico incantesimo. A dimostrarlo sono le perfette geometrie di ciascuno dei dodici brani presenti nell’album. Il perfetto esempio di questa felice commistione di riferimenti e di umori è un pezzo come “Samson”, preghiera commovente e lacerante che alterna con un gusto e con una raffinatezza rari voce, pianoforte e sassofono; il pezzo, in perenne movimento, segue un percorso che è al limite tra gospel, free jazz e new age e sembra uscire tanto dal recente disco di André 3000 quanto dall’ultimo dei Bon Iver.
Questa metafisica transitorietà è uno dei centri focali di What Now, un album che prova a vivere al di fuori dal trambusto quotidiano non per sfuggirlo o per fingere di cancellarlo ma per creare un’alternativa sana e speranzosa a esso: «I know we can do it / Let’s get to it», canta Howard in “Another Day” con un piglio energico e frizzante all’interno di un brano che è avvolto da una nebbia di solennità e di resilienza. L’amore, non diversamente dal mondo spesso spietato e ingiusto che ci circonda, sa ferirci nel profondo ed è pronto a tenderci tranelli e a spiazzarci, sembra suggerirci Howard qui.
Per rompere questo muro di gomma che rimanda indietro ogni colpo gli si sferri e ogni tentativo si intraprenda per aggirarlo solo la sincerità può aiutarci, attutendo parzialmente le nostre paure e i nostri dubbi. «I will show you how I feel for you right now», recita “Prove It to You”, un altro scatenato funky-dance che guarda nuovamente a Prince, «All I wanna do is prove it to you». La capacità di Howard di gestire sia episodi come questi sia momenti più pacati e riflessivi come tanti altri che vi sono in questo disco è particolarmente spiccata e mai una sola volta scontata. In questo senso, What Now è l’ennesima, brillante vetrina in cui l’ex leader degli Shakes mostra a tutti lo straordinario talento che possiede come performer e scrittrice.
In questo turbine di spunti, What Now nasce e cresce dagli sforzi e dalle sofferenze che hanno portato alla sua creazione, che sembra spontanea e festosa solo a chi non sa scrutare nelle sue profondità. Sembra ricordarci che le nostre certezze sono in costante cambiamento, così come lo sono gli equilibri precari che ogni brano costruisce. Questo perenne flusso di suoni, idee e immagini colora tutto il disco. «All we need is a little patience, girl», canta Howard in “Patience” mentre il disco si avvicina alla sua conclusione, che viene affidata a una delle composizioni più ardite e originali della carriera dell’ex Shakes, “Every Color in Blue”, costruita su un crescendo vigoroso ma di fatto ipnotica per la sua dosata ripetitività. Un amalgama di arpeggi elegantissimi e beat sperimentali singhiozzanti, che potrebbero far pensare addirittura ai Radiohead di In Rainbows, una dolcissima tromba e accordi in loop di piano sembrano guidarci per mano in un sentiero tortuoso di cui si vede, però, la meta: «You don’t see my injury / You don’t see the energy it takes me», canta Howard mostrando fiera le ferite che solamente questa musica, nel gioioso grido di speranza che è in grado di emettere, pare riuscire a guarire o quantomeno a far diminuire.
(80/100)