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Slowdive, Alcatraz, Milano Mercoledì 31 Gennaio.
We can do it again.
“We can do it again” dice Rachel Goswell – cantante e chitarrista degli Slowdive- mentre sorride guardando il pubblico. Ha appena interrotto l’esecuzione di “Kisses” a causa di qualcuno nel pubblico che si è sentito male (niente di grave per fortuna) ma è decisa a “farla di nuovo”. Così riparte l’intro e la platea viene riassorbita per la seconda volta dal mood incantato del loro nuovo singolo.
Non è stato un episodio così rilevante ma, mentre si accendevano le luci su tutto il palazzetto, mi sono risvegliato dal trip lo-fi che solo un gruppo come gli Slowdive riesce sapientemente a creare. E’ stato come riprendersi da una catarsi collettiva per poi immergersi di nuovo dopo pochi secondi.
“We can do it again!” possono anche essere le parole perfette per presentare il comeback tour del nuovo album, “Everything is alive”, premiato con un doppio soldout italiano: Alcatraz a Milano ed Estragon a Bologna. La vita musicale degli Slowdive si divide in 3 album pubblicati negli anni 90’ e due album usciti a vent’anni di distanza, con in mezzo un buco generazionale da colmare. Questa frase di Rachel Goswell prende forma sul palco, gli Slowdive sembrano freezati, capaci di avvolgere la platea nella marea di suoni distorti, onirici, caratteristici del loro genere Shoegaze/Dreampop di cui sono sicuramente tra gli esponenti principali.
La band di Reading si presenta sul palco alle 21:15, con una canzone di Brian Eno in sottofondo. L’inizio è affidato a “shanty”, opening track di “Everything is alive”. 4 brani sui quindici in scaletta saranno presi da quest’ultimo album che, insieme al precedente e a Souvlaki, saranno i più suonati. Il brano ha delle sfumature inusuali, la resa live è perfettamente riuscita grazie ad alcuni inserimenti elettronici.
Dopo la prima canzone si attiva la solita macchina degli Slowdive. Neil Halstead (chitarra e voce) e Christian Savill (chitarra) si intrecciano creando effetti ipnotici ammalianti. Il basso di Nick Chaplin, impregnato di riverbero, si sovrappone alla batteria di Simon Scott, puntuale e preciso soprattutto nei contraccolpi sui piatti.
Rachel Goswell impersonifica perfettamente il ruolo di leader involontario. Si muove con il suo tipico balletto ondulatorio e passa dai synth ai tamburelli, imbracciando anche la chitarra elettrica per “Skin in the Game” o “Alison”. La sua voce è perfetta per lo stile New Wave, anche da corista e seconda voce, quando Neil Halstead diventa il lead singer, riesce ancor di più a valorizzare i pezzi creando un contrasto perfetto. Il palco è volutamente scarno, mentre i visual sullo schermo dietro sono composti da linee colorate sempre in movimento, quasi a ricordare i tempi di Windows negli anni 90’.
L’atmosfera lo-filizzata procede fino a “Kisses”, imponente brano tra i più melodici della loro carriera. Dopo l’episodio citato all’inizio la band sembra più disinvolta, leggera, complice anche la presenza in scaletta di brani provenienti dai loro primi album.
In “Alison” e “When The Sun Hits” la band sembra volersi divertire e riappropriarsi degli anni 90’. Su questi due pezzi appare per la prima volta il classico muro di telefonini, usanza che sembra non appartenere ai fan degli Slowdive, ma che si riaccende nel revival di due pezzi storici. In questi brani è presente ancor di più una vena Shoegaze, affiorano dei suoni simili ai Mogwai e My Blood Valentine, gruppi di riferimento della band.
L’encore si apre con “Sugar for the Pill” brano che segna il loro ritorno sulle scene nel 2017, piacevolmente apprezzato dalla platea milanese. A seguire “Dagger”, uno di quei momenti intimi che non ti aspetti. I due vocalist si intrecciano in una cupa ballad in perfetto stile “Nightmare before Christmas”.
La chiusura è affidata a “Golden Hair”, cover di Syd Barrett, brano manifesto con un outro sonoro che vorresti non finisse mai.
Una parola spesso abusata nelle recensioni musicali è “credibilità”. Gli Slowdive sono uno di quei gruppi che riesce ad appropriarsene, sono la personificazione di un genere, sono l’emblema di quel metaverso fatto di casino sonoro controllato.
Sentivo dei commenti mentre uscivo dall’Alcatraz “si ma la sezione ritmica è monocorda” oppure “mai più concerti in Italia, acustica pessima”, oppure “senza tappi impossibile ascoltarli”.
Certo, in parte sono tutte cose vere, ma mi piace citare una recente intervista in cui è stato chiesto agli Slowdive “Cos’è cambiato rispetto agli anni 90’?”. La loro risposta è stata “Niente, a parte che siamo meno ubriachi, suoniamo in posti più grandi e andiamo a letto prima”. L’impressione è che questa magia sia ormai insita nel gruppo. Magari si sono spostati da quella sfumatura grunge, sporca, e si sono mossi in un terreno più melodico, ma quando vai ad un loro concerto sai che puoi lasciare a casa i pensieri per un’ora e mezza e sostituirli con dei suoni che ti si appiccicano dentro in maniera viscerale.
Decisamente “we can do it again”.
(La foto in evidenza è una still tratta da un video di YouTube filmato durante uno show del gruppo a Copenaghen a inizio gennaio; il video qui sopra è invece un frammento del concerto di ieri sera.)