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La mia introduzione al punk, inteso come stile musicale, arrivò quando non avevo più di 11 anni. Il primo giorno di vacanza estiva, alla fine della scuola, per una serie di coincidenze finii per cercare il videoclip di “Anarchy In The UK” dei Sex Pistols. Come è facile da immaginare, venni sopraffatto da quel tipo di energia e di attitudine.
Da quel giorno seguì un’intera estate passata insieme a uno dei miei più cari amici- già introdotto dai genitori ai vari Pistols, Ramones, Clash- in lunghissime sessioni giornaliere di ascolto, lettura, visione di documenti riguardo a questa cultura. Ovviamente quello che ‘punk’ significasse rimaneva una nebulosa nella mia mente pre-puberale: per quanto tacciassi già i Green Day e i loro ascoltatori di poser, cosa potevo mai capire quello che i miei nuovi beniamini strillavano nei loro testi e nelle loro azioni?
Proprio per questo rimasi particolarmente confuso quando, in quella lunghissima estate, ci imbattemmo in un documentario sul famigerato concerto bolognese dei Clash del 1980. Per chi si fosse perso qualcosa: per il Primo Maggio bolognese del 1980, il Comune del capoluogo emiliano ingaggiò il famosissimo gruppo britannico, per poi venire durissimamente contestati dai militanti e punk locali. Come era possibile, i miei beniamini insultati da quelli che io ritenevo miei predecessori?
In questo, ad aggiungere confusione c’erano le citazioni ai Crass, con quell’iconico “They said that we were trash / well, the name is Crass not Clash” che poi riascolterò tante volte nel corso della mia crescita. Piano piano cominciai allora ad ascoltare e leggere dei Crass, il leggendario collettivo anarco punk inglese che rappresenta una delle esperienze artistiche a cui tutt’ora sono più legato. Questa volta in solitudine, perché mentre le canzoni di “London Calling”, che tra rock, derivazioni black e liriche fortemente orecchiabili ben si prestavano ad ascolti condivisi e avevano trovato il loro spazio nel pantheon del pop, i brani dei Crass erano ispidi, con un inglese durissimo e senza nessun appiglio di facile ascolto o che si prestasse al cantato. Cosa era allora il punk?
Era semplice intuire che questo modo di vivere e di esprimersi non potesse risolversi nella pubblicità di una rivoluzione, acquistabile tramite un disco, un abito o con l’assoluzione collettiva di un concerto. Nei dischi dei Crass non ci sono buoni sentimenti, né speranza o cuore. C’è il marcio, le escrescenze della società britannica ed europea del tempo, una denuncia poetica che non sfocia mai nella retorica. E pensare quanto oggi sarebbe ‘problematico’ un testo come quello di “White Punks on Hope”, che si apre con l’accusa ai Clash citata in precedenza.
Sono sempre rimasto convinto, sempre più, che punk non fosse una questione di estetica, di stile, di modo di fare le cose. Punk è radicale, pericoloso, e -cosa fondamentale- senza compromessi. Il punk non è la cosa che porta la speranza, compito da sacerdoti; punk è dire che Gesù è morto per i propri peccati e che quella croce rappresenta il seme della corruzione nella società occidentale, bigotta e violenta; dedicare brani o dischi interi alle tematiche antispeciste, ambientaliste e femministe su un piano di lotta e non accondiscendenza; far distribuire canzoni oscene a giornaletti per ragazze, rischiare facendo attivismo radicale o divulgando (finte) intercettazioni telefoniche capaci di mettere in crisi la politica internazionale.
Quello dei Crass non fu un movimento (“movements are systems, and systems kill”), ma una grandiosa esperienza collettiva, una pratica di autogestione e anarchia andata avanti per anni e ancora punto di partenza per quello che riguarda le pratiche di DIY militante e di espressione coerente dell’anarchia attraverso un progetto artistico.
Sempre contro ogni retorica, riprendetevi le vostre credenziali punk. Citando Wu Ming, “La Rivoluzione verrà fatta con ogni mezzo necessario/ ma nessun mezzo necessario farà la Rivoluzione”. L’esempio dei Crass serve a ricordare, una volta di più, il potere dell’azione individuale contro l’impotenza dell’eterno ritorno al confronto nella ricerca di una consapevolezza olistica nei confronti della società e delle sue ingiustizie che castra ogni tentativo di azione.
Perché, in fondo, il punk non è mai stata solo musica. Forse, in fondo, il punk è stato l’unico vero modo di approcciare, attraverso la musica, la vita in maniera diversa. E se poi fosse morto, come cantavano i nostri parlando dei Clash e Patti Smith, chiamatelo con un altro nome. L’importante è agire.