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Credo che le boygenius abbiano creato uno spartiacque, un prima e un dopo, nell’indie-rock, in particolare il loro album “The Record” (2023): hanno indicato definitivamente che oggigiorno la vera vita dell’indie-rock è essere inglobato nel pop. Il nuovo modo di intenderlo è renderlo anestetico, innocuo, di bellissima quanto poco concreta fattura. So di essere ingeneroso in quanto “The Record” è stato il disco più considerato dalle classifiche mondiali dell’anno scorso, ma è proprio per questo che lo prendo ad emblema: perché l’indie-rock si fa così per le nuove generazioni. E’ un pill-rock (definizione mutuata dal senso di “pill-pop” così come venne definito nel 2017 dal « The Washington Post»), un indie-rock per chi vuole evadere e non vuole avere preoccupazioni, in cui le chitarre ci sono ma sono un semplice mobilio non ingombrante, una specie di mobile-ikea buono per tutti i salotti, è un indie-rock confidente come un amico in carne ad ossa (che si ha sempre meno) ma che non interpella, non ti dice le cose in faccia, è un indie-rock che non urta, non dà fastidio nemmeno ai primi ascolti, si prende su subito e tutto d’un fiato come un anestetico che fa passare via tutto. Sussurato, calmo, anche quando vuole essere incazzato è comunque sempre misurato, senza sbavature. Non perde mai le staffe. Per chi ha più di 30 anni è un qualcosa che passa e va, per chi ne ha meno è una salvifica ancora di salvezza.
Perché discuto così tanto di “The Record” parlando dell’album d’esordio di Francis of Delirium, il progetto che gira intorno alla figura eclettica della 22enne Jana Bahrich: perché l’ep del 2022, “The Funhouse” (ne avevamo parlato in un T4ATF!), aveva fatto sperare in grandissime cose, in un indie-rock giovane che non avesse il suo fulcro sonoro nel passato ma mantenesse quella identità di malessere e di rabbia di fondo. E invece è esattamente come “The Record”: canzoni belle, di ottima composizione, arrangiate nella maniera più inoffensiva che mai. Un album che potrebbe avere una duplice votazione: il voto qui sotto come valutazione diretta ad ascoltatori che abbiano più di 30 anni, un bel 80 per chi ne ha meno. Probabilmente potrebbe essere un album che piace molto a chi è ancora giovincello. La scrittura – lo ripeto – è davvero superba.
La Bahrich ha comunque ben presente tutto questo: “Scrivo canzoni pop con una strumentazione non pop, e questo si presta a canzoni in cui i ritornelli sono semplici”, ha dichiarato a The Line of Best Fit. “Il mese scorso ho seguito un corso di scrittura di Adrianne Lenker. Diceva che le strofe dovrebbero dare un senso ai ritornelli e che il rapporto con il ritornello dovrebbe cambiare con l’avanzare delle strofe. Quindi credo che sto cercando di lasciare che siano le strofe a fare il ‘vero’ lavoro”. Per certi versi Francis of Delirium – che hanno base in Lussemburgo – è un progetto che nasce proprio da due generazioni diverse: Jana Bahrich, nata a Vancouver, con la fascinazione per il grunge degli anni ’90, con l’accompagnamento di Chris Hewett, un batterista di Seattle più vecchio di lei di 30 anni, quindi che ha vissuto in diretta e in loco proprio quel grunge e che in Lussemburgo fa l‘insegnante nella scuola che ha frequentato Jana (l’International School of Luxembourg). Dopo che gli EP erano una vera via di mezzo di queste due esperienze, ora l’indole della Bahrich emerge prepotentemente, ed è giusto così.
Peccato che (tranne in alcuni momenti come nel primo singolo “Blue Monday”) non si riesca a non considerare “Lighthouse” come un’occasione persa, non perché si vuole ascoltare del vecchio indie-rock rimasticato da dei reduci come fanno ad esempio i Ride (li si cita solo perché il loro “Interplay” è uscito oggi e quindi si è freschi di ascolto) ma proprio in quanto si vorrebbe un nuovo modo di rappresentazione musicale giovanile del mondo che non sia accomodante e confortevole.
70/100
(Paolo Bardelli)