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Quarant’anni dopo il singolo d’esordio Upside Down per la Creation Records del talent scout (e loro primo manager) Alan McGee, i Jesus and Mary Chain tornano a dettare legge con “Glasgow Eyes”, a sette anni di distanza dall’ultimo album in studio “Damage And Joy”. I fratelli Jim e William Reid festeggeranno ulteriormente il traguardo con un’autobiografia in arrivo su Orion/White Rabbit ed un tour nel Regno Unito ed in Europa, che li porterà anche il 17 aprile all’Alcatraz di Milano.
Il nuovo disco è stato registrato presso lo studio Castle Of Doom dei Mogwai: ciò che è emerso è un repertorio che vede il gruppo abbracciare un secondo capitolo produttivo, dove il loro vortice di melodie e caos ora suona in un formato più udibile e variegato, ammorbidito dal loro amore per Suicide e Kraftwerk (evidente in Venal Joy) e in soluzioni vicine ai New Order in Silver Strings o Mediterranean X Film. Sebbene il processo di registrazione sia rimasto sostanzialmente lo stesso, alcune cose sono cambiate nel corso degli anni. Le sessioni precedenti, per stessa ammissione di Jim, si sono spesso rivelate un’esperienza dolorosa a causa dei famigerati attriti tra i fratelli. “Abbiamo imparato come affrontare l’antagonismo. Voglio dire, negli anni ’90 la situazione è andata completamente fuori controllo. Abbiamo imparato molto da questo. Ora so che si sono alcune linee tracciate, sono difficili da vedere ma ci sono. Negli anni ’90 non le vedevo perché ero così ubriaco, e lo era anche lui, ma ora so che se dico questo o faccio questo, avrà una reazione, quindi è meglio farlo in un modo differente. Cerchiamo solo di portare a termine il lavoro senza fotterci a vicenda”.
I momenti più conservativi di “Glasgow Eyes” finiscono per essere proprio i singoli estratti, da una Girl 71 very rock’n’roll che non starebbe fuori posto in “Munki” (1998) a Chemical Animal più astratta e votata al loro lato oscuro. Le lunghe cavalcate Pure Poor e Hey Lou Reed sono velvettiane fino al midollo ma come microsuite regalano tante idee interessanti al gusto di blues e psichedelia, laddove Discotheque e Jamcod guardano piuttosto al nu-rave tra groove tossici, rumore e lo stesso delirio di onnipotenza che erediteranno negli anni i figliocci Oasis e The Libertines.
Oltre agli attriti uno dei motivi per cui la band, quando si riunì nel 2007, non andò lontano, era il pensiero di sentirsi ridicoli, vecchi che rimangono ancorati ai tempi d’oro. “Ma poi i Pixies erano in tournée per il mondo cantando Head On e ho pensato ‘fanculo, lo stanno facendo, perché noi non possiamo? Penso che questo album sia buono come tutti gli altri nostri lavori, e non si tratta di avere 22 anni: siamo dove siamo adesso” prosegue Jim. “Lo farò finchè non mi sembrerà sbagliato. La musica è ciò che mi interessa, non riesco ad immaginare di fare qualcos’altro”. E noi li ringraziamo, sperando che gli occhi di una Glasgow piena di ardore si chiudano il più tardi possibile.
76/100
Foto della band cortesia di Jala Media Activities