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In Tigers Blood Katie Crutchfield riparte dal punto esatto in cui St. Cloud si era concluso. Il microcosmo che pennella la propria interiorità diventa sin dalle prime note un’autostrada di spunti e di riferimenti che affollano gli acquerelli che compongono il disco, tappe poetiche e coinvolgenti di un percorso ambizioso che prova a misurarsi con l’universale a partire da un viaggio dentro di sé che è equilibrato e profondo, un viaggio che attraversa il caldo sud statunitense e crea un fertile dialogo tra Americana, folk, country e indie rock.
Nel percorso artistico di Waxahatchee, l’aspetto intimo e introspettivo dei testi che completano le avvolgenti e ipnotiche melodie della cantautrice è da sempre profondamente intrecciato a quel senso di coming of age che tanta musica statunitense, inclusa, talvolta, quella di Katie Crutchfield, ha cercato di descrivere: diventare adulti attraverso gli ostacoli che il mondo ci mette davanti diventa la chiave attraverso cui raccontare non solo se stessi ma quello che ci sta intorno, cosa che di fatto modella e tempra ciò che ciascuno di noi è. Questo disco, come i precedenti, non fa eccezione, ma qui come in St. Cloud la maturità compositiva di Crutchfield oltrepassa questo contenitore e sembra non smettere di voler esplorare ancor più soluzioni e percorsi sia lirici sia musicali.
Tutto questo e molto altro contiene Tigers Blood: la catarsi generazionale e individuale che Crutchfield ha scelto di cantare sin dai suoi esordi, parzialmente esplicitata già nel nome d’arte così evocativo che si è data, si unisce magistralmente alle immagini delle balle di fieno, delle strade infinite e dei cowboy innamorati che popolano l’immaginario del sound rurale del country e dell’Americana nel quale questo folk rock cantautorale e romantico si immerge, tutti aspetti che qui come nel precedente St. Cloud trovano la loro realizzazione più completa e notevole. Influenzata da Lucinda Williams, da Joni Mitchell e dall’indie americano dei Nineties, Crutchfield leviga e modella i pezzi qui presenti con le stesse fattezze che aveva il disco precedente, mettendosi a nudo e mostrandosi la stessa ragazza combattiva, schietta e sagace che percorreva il disco del 2020.
A produrre Tigers Blood c’è la mano esperta di Brad Cook, già presente in St. Cloud, che cura ogni dettaglio con precisione e con raffinatezza senza che si perda nulla della spontaneità e della semplicità che scorrono raggianti in ogni brano del disco. Al fianco di Waxahatchee troviamo la chitarra incalzante e talvolta anche la voce di MJ Lenderman dei Wednesday, Phil e il già citato Brad Cook e Spencer Tweedy. La ballata seducente “Right Back to It”, il primo singolo estratto dal disco, è il perfetto biglietto da visita dell’intero progetto: su un dinamico tappeto formato dalla chitarra di Lenderman, dal banjo di Cook e da una batteria che li segue quasi con discrezione la voce di Crutchfield edifica una melodia celestiale il cui testo esplora alcune dinamiche relazionali: «Reticent on the off chance / I’m blunter than a bullseye / Begging for peace of mind», canta Crutchfield, per poi essere affiancata dalla voce di Lenderman nel chorus, che produce una confessione come «I let my mind run wild / Don’t know why I do it», che è anche uno dei fil rouges del disco.
Qui come altrove il suono è esattamente a metà tra country e folk. A una batteria geometricamente dosata si intrecciano pennate di chitarra acustica molto dense e precise. L’elettrica emerge qua e là con preziosi e splendidi arpeggi che danno un colore più vivido e caldo al tutto. Si può notare la forza e la finalità di questa scelta in brani particolarmente sobri come “Burns Out at Midnight”, dove ad ampliare l’architettura compare anche l’armonica, e “Lone Star Lake”, mentre il dialogo tra i vari strumenti in gioco, la voce divertita di Crutchfield e il sarcasmo dei versi cantati esplode in quel rodeo musicale che è “Bored”, pimpante e insistente nel suo addossarsi e aggrapparsi all’ascoltatore come per avere la sua più totale attenzione. Quando Crutchfield canta «I get bored» è come se quella frenetica giostra si fermasse improvvisamente al culmine di un chorus dilatato e quasi ridondante, effetto voluto e particolarmente ammaliante nel contesto del brano in questione; provarci e fallire non è mai stato così esaltante mentre il brano procede spedito: «My spine’s a rotted two-by-four, barely hanging on», grida Crutchfield quasi infastidita dal dover dire ciò che sembra ritenere scontato, «My benevolence just hits the floor».
Il percorso di Tigers Blood è un sentiero fatto di impercettibili indizi e di tracce evidenti, di fresche impronte nel fango e di misteriose presenze sin dalle sue prime battute. «You might get lost in the moment / Take it easy on your opponent», recita “3 Sisters”, il brano che apre il disco, che ha un tono elegiaco ed etereo ma un passo quasi marziale quando nella seconda parte entra la batteria e che tocca alcuni dei temi che l’intero disco affronterà in più momenti, dalle relazioni indagate come luoghi di incontro e di scontro al tempo che passa e lascia dietro di sé rimpianti e nostalgia. Non solo le relazioni, però, sono un campo di battaglia nel quale farsi valere: ciò vale anche per se stessi. La splendida gemma che è “365”, una scarna e poetica ballata che esplora gli aspetti tentacolari e tossici dell’amore nei suoi momenti dolci come in quelli più drammatici, mette a nudo questo aspetto, giocando su simmetrie e asimmetrie e su riflessi, ombre e luci: la propria essenza e il modo in cui essa si confronta con l’altro e lo affronta sono al centro della scena e l’intero brano è costruito su questo delicato e precario equilibrio. «I ain’t had much luck but grace is / In the eye of the beholder / I had my own ideas but / I carried you on my shoulders, anyways», canta Crutchfield nelle prime battute. La dipendenza dall’alcol e dall’altro si intrecciano in modo angoscioso senza rinunciare a risultare a tratti dolorosamente romantiche: «I catch your poison arrow / I catch your same disease», recita il testo del brano, per produrre, poco oltre, immagini altrettanto chiare e incisive, alcune concrete, altre astratte, come in «When you fail, I fail / When you fly, I fly».
Esperire l’altro, proiettarlo e farlo infine entrare dentro di sé, in un crescendo che può diventare splendidamente positivo come tragicamente tossico, è una delle riflessioni che viene maggiormente esplorata nel disco: «You come alive in the heat», esordisce “Tigers Blood”, il pezzo che chiude il disco con tono ottimistico pur non essendo privo di ombre. La lotta interna dell’io e il suo rapporto col tu riempiono le pagine di questo disco come riempivano quelle del precedente, influenzando anche certe scelte liriche e ritmiche. «I, I know that you can’t read my mind / I swear I said the same thing a hundred times», recita la sabbiosa e vorticosa “Crowbar”, con uno zoom netto e lampante su quell’io che anche “Bored” contiene con insistenza. La lotta è soprattutto dentro di noi, sembra dirci Crutchfield, ma è attraverso l’incontro-scontro con l’altro che possiamo capire qualcosa di più su noi stessi e forse cambiare e guarire. A questo aspetto si collega una certa necessità di fare ordine nel caos dei ricordi e dei sentimenti, volontà che però resta spesso disattesa e in parte allontanata. In “Evil Spawn”, per esempio, l’augurio che canta Crutchfield, «We can roll around in the disarray / In the final act of the good old days», non è semplice malinconia per qualcosa che non può più realizzarsi bensì, piuttosto, un disordine regolato e accettato che non per forza è da condannare.
Un altro punto di forza di Tigers Blood è la sua polifonia. Oltre ai nomi coi quali Crutchfield tenta di misurarsi, dalle già citate Joni Mitchell e Lucinda Williams a Bob Dylan e a tutto quello che il folk e il country rappresentano e significano per il mondo americano e in esso, polifonica è anche la voce della sua autrice, che a un’introspezione serrata affianca uno sguardo universale e trasversale e che intorno a sé si circonda di musicisti energici e talentuosi che fanno emergere ciascuno il proprio tocco e la propria visione del mondo. La chiusura corale che Crutchfield sceglie di affidare alla traccia che sigilla il disco e che gli dà anche il titolo è in tal senso emblematica: «You got every excuse, but it’s an eerie sound», canta Crutchfield accompagnata da tutto il gruppo al suo fianco, «When that siren blows, rings out all over town». È il momento – uno dei tanti in questo disco, uno dei più belli e segnanti – in cui si palesa quel rituale collettivo e individuale attraverso il quale Crutchfield lega la propria lotta interiore al confronto con il mondo esterno. È una confessione placida e al tempo stesso granitica, fragile nella sua sincerità ma impossibile da scalfire o da mettere in discussione nel momento in cui viene cantata, una consapevolezza che non è mai un arrivo ma una (nuova) partenza.
(82/100)