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I Justice sono dei Daft Punk che non ce l’hanno fatta. Si scherza, non è che i Justice siano gli ultimi arrivati però diciamo che non hanno raggiunto la fama e lo status del duo parigino, che tra l’altro non esiste più (scioltosi ufficialmente nel febbraio 2021) e che quindi – si potrebbe dire – ha lasciato la scena aperta ad eventuali successori. Riescono a Justice ad afferrare il testimone con questo quarto lavoro? Io direi proprio di sì, anche se ci sono diversità evidenti tra i due progetti e anche tra questo “Hyperdrama” e i precedenti album dei Justice stessi.
Innanzitutto “Hyperdrama” non ha connotazioni smisuratamente funk, animo che invece permea e contraddistingue molta della produzione DP (e che probabilmente è stata anche la chiave di lettura del loro successo “commerciale”), perché si sposta più sul piano electro puro e di elettronica classica, ambientale o di matrice kraut che sia. Personalmente trovo questo aspetto un plus, perché il funky molte volte strizza l’occhiolino all’ascoltatore ma promette di più di quello che mantiene. I Justice invece vanno alla sostanza della materia digitale: un po’ tamarra alla Chemical (“Generator”), krafteriana con sensore funk (qui sì) in “Dear Alan”, asciutta alla maniera dei Royksopp (“The End”) o fatta di una psichedelia d’atmosfera come i migliori Air (“Moonlight Rendez-vous”, il dialogo di “Explorer” che rimanda direttamente a “How Does It Make You Feel?” senza passare dal via).
I Justice hanno sviluppato il loro animo pop con la collaborazione con i Tame Impala in un paio di pezzi che spaccano, l’iniziale “Neverender” e la bellissima “One Night/All Night” (che si è aggiudicato lo scettro di miglior singolo dello scorso Gennaio), e in generale hanno diminuito leggermente il loro impatto di natura rock per privilegiare soluzioni che affascinino piuttosto che coinvolgano ritmicamente. Oddio, il tiro e le dinamiche sono pazzesche in “Incognito”, ma le stesse si stemperano – al culmine dell’ipnosi – nella intro pacata piuttosto che in un 4/4 pari che avrebbe esaltato le masse. È una tecnica al contrario, si potrebbe dire, far crescere a dismisura il suono per poi azzopparlo, confondere le frequenze e poi virare in derapata verso altri lidi più ponderati.
Ciononostante tutto questo, “Hyperdrama” colpisce per la cura sonora (i bassi sottotraccia in “The End” entrano nello stomaco e non escono più) e la perfezione che solo un album che si attendeva da sette anni (l’ultimo “Woman” è del 2016), ben utilizzati. Nel frattempo il mondo è cambiato e i Justice ripropongono la medesima formula, questo è vero, però hanno differenziato alcune sfumature e in ogni caso la qualità dei pezzi è alta. Per questo non si condividono alcune critiche che l’hanno definito un album troppo “luccicante” (Pitchfork, che ha dato un 6.3), sottintendendo che la cura è diventata maniera e l’essere adulti cozza con la spensieratezza di far ballare. Tutto si tiene, a mio parere, le parti che mi hanno meno convinto sono quelle più R&B perché forse lì non si capisce bene se loro ci siano dentro oppure no, se se le sentano davvero. Ma non è un danno diventare adulti se questo si accompagna all’essere sempre coerenti con il proprio intimo io: i Justice rimangono fedeli a loro stessi, sta a noi decidere se continuare o meno ad accompagnarli nel loro cammino.
75/100
(Paolo Bardelli)