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Il quarto album in studio di Jessica Pratt è una spettrale e magmatica riflessione sul sogno californiano, in particolare sulla sua fine, che disegna un’atmosfera sonora onirica e claustrofobica riuscendo a essere al tempo stesso magnetico e invitante. Le seducenti melodie che Here in the Pitch srotola nel suo dolce procedere possono essere onirici viaggi in un passato immobile e protettivo oppure gravosi incubi di qualcosa di oscuro che vive nascosto dentro ognuno di noi. Pratt sembra ammettere entrambe le possibilità mentre disegna un dipinto che sa essere tanto lucente e radioso quanto fosco e sinistro.
Soffusi e aggraziati, i ventisette minuti di Here in the Pitch, il nuovo album di Jessica Pratt, suo quarto lavoro in studio, il primo in cinque anni, scorrono con una freschezza e una spontaneità rari. Le graziose melodie e gli arrangiamenti scarni e al tempo stesso immersivi e raffinatissimi di questi nove brani sembrano – anche se soltanto per incidens – incrociare qualcosa di oscuro e di inquietante, presagi che popolano sotterranei l’album, elementi inquietanti e pulsanti che però emergono con molta più frequenza e meno evidenza di quanto un ascolto distratto e superficiale potrebbe far pensare.
Di atmosfere sognanti e insieme piene di inquietudini, dissonanze e disagi è intriso l’intero album. “Life Is”, il brano che lo apre, ci catapulta immediatamente in un universo straniante e pulviscolare, in uno spazio e in un tempo lontani e difficili da mettere a fuoco. «Time is time and time and time again / And what would you say if you can’t get out of here», canta Pratt mentre disegna un cerchio ai bordi del quale scorre il tempo, che pare chiuderci in una dimensione e in un perimetro infiniti ma sempre identici a sé. Ci troviamo di fronte a una giostra vuota che gira in un angolo del mondo ormai abbandonato e dimenticato, dove tutto si è fermato e dove vivono solamente fantasmi.
In Here in the Pitch, che ha lo stesso numero di brani e la stessa durata del precedente Quiet Signs, che era ancora più spoglio, il sogno californiano si scontra con le aporie e con le idiosincrasie che esso ha posto davanti a tanti di coloro che nei ’50s e nei ’60s lo hanno vissuto e abbracciato; le delusioni si possono incarnare in qualcosa di diabolico che può avere le sembianze di un incubo, di un amletico dubbio, di un serial killer. Nella spettrale “World on a String” Pratt vuole essere «the sunlight of the century / […] a vestige of our senses free»: la sua voce sembra arrivare dal passato, forse dall’oltretomba, e gli strumenti e la voce paiono fondersi tra loro, distorcersi, soffocare e deteriorare come succede in un altro album uscito qualche settimane fa e di cui si sta scrivendo tantissimo, Diamond Jubilee dei Cindy Lee, che ha in comune con questo anche la capacità di muoversi sulla superficie e di penetrare al tempo stesso nelle zone più remote e inesplorate della psiche.
L’idea di applicare a un disco registrato in studio una dimensione lo-fi che sia sognante e magnetica e che dia l’impressione che il suono esca da un antico apparecchio radiofonico trovato per caso in una soffitta, che accomuna questo lavoro col disco dei Cindy Lee e con altri album più o meno recenti, non confligge con la purezza e con la limpidità sonora che Pratt ricerca nelle sue composizioni e nella loro esecuzione. Il fatto che questo album, come si scriveva poco fa, sembri meno spoglio dell’altrettanto ottimo Quiet Signs e dei due che lo avevano preceduto non lo rende affatto meno diretto o più pomposo. Anche qui, infatti, tutto è essenziale e tutto è indirizzato alla ricerca di un equilibrio sonico e oserei dire psichico che viene rincorso, afferrato e poi scombussolato di nuovo con una spontaneità e una ricercatezza straordinarie. La ritmica ipnotica della bossanova di “By Hook or by Crook” è un esempio di come questa ricerca sia ossessiva e meditata: il brano ti insegue dall’inizio alla fine con la sua melliflua chitarra, con il suo basso levigato e con la fantasmatica voce di Pratt, che tra riverberi ed echi ti cattura e ti inchioda.
Nudità e minimalismo si mescolano a effetti vocali ricercati e a complessità nella produzione nella sublime “Empires Never Know”, una ballata guidata dal pianoforte dove la voce di Pratt si fa ancor di più strumento di quanto già non faccia di solito. Anche in questo caso sono i piccoli particolari a incorniciare un’esecuzione – sia vocale sia degli strumenti, degli effetti e del loro disinvolto e delicato equilibrio – meravigliosa e sentita. Quando sul finire del brano Pratt canta «All your fallacies are wasted in the fore» ogni sillaba e ogni nota sembrano scomporsi, volando via come sabbia che scivola dalle mani ancor prima che possiamo accorgerci di ciò di cui si sta cantando. La canzone si dissolve davanti ai nostri occhi tanto misteriosamente quanto inspiegabilmente aveva preso forma nei due minuti precedenti. È una sensazione effettivamente indecifrabile ma naturalmente e immediatamente percepibile. Così la conclusione solo apparentemente conciliante di “The Last Year”, che a un jingle melodioso e ammaliante fa corrispondere un’atmosfera gelida e a tratti quasi angosciante, potrebbe essere la colonna sonora perfetta per descrivere la fine della giovinezza, la fine dell’innocenza, la fine di un sogno tramutatosi in incubo che lascia ovunque delusione e tristezza se non disperazione. «I think it’s gonna be fine», canta Pratt a se stessa e a noi, convinta ma oramai disillusa, mentre scompare in una nuvola di incertezza e di fumo con un sorriso sardonico, «[…] gone with all the changes in my mind».
83/100