Share This Article
#throwbackthursday
Sappiamo bene cosa vuol dire un “guilty pleasure”. Il lato di colpevolizzazione del piacere “proibito” (per tante ragioni) è oramai stato sdoganato ampiamente per via di una sorta di “diritto alla leggerezza” (vedasi l’articolo di Wired del 2018, “In difesa del guilty pleasure”). Erano i tempi in cui tutto si trasformava in pop (ci siamo ancora dentro) quindi ci starebbe come teoria: il pop è quella leggerezza di cui abbiamo bisogno e che ci legittima ogni cosa. Peccato che io non sia propriamente d’accordo. Se una cosa è sbagliata, rimane sbagliata, anche se in quel momento siamo deboli e dovremmo essere scusati nell’esserci immersi nell’ignoranza o, meglio, nell’amore verso prodotti preconfezionati e privi di reale valore artistico.
L’ascolto di musica di merda rimane quindi a mio parere un peccato, checché io vi voglia ammorbare o cercare di autoassolvermi per questo e quest’altro motivo. Oddio, per i Keane non siamo proprio dalle parti della pupù, ma oggettivamente il loro pop mellifluo, le loro melodie così zuccherose, piene di enfasi inutile e sovraccarica come se solo loro stessero soffrendo al mondo, beh, è una roba che un critico musicale con un minimo di buon senso non può dire a cuor leggero di ascoltare piacevolmente.
Questa mia confessione sul mio prolungato ascolto, nel tempo, del secondo album dei Keane, “Under the Iron Sea” (2006) va quindi contestualizzata, e alla fine mi direte se posso andare in pace. In questi giorni mi è ritornato fuori perché sarebbe stato il compleanno di mio padre, e poi perché avevo letto da qualche parte che il loro primo, pluripremiato, “Hopes And Fears” (2004) sarebbe stato ripubblicato in occasione del 20ennale. “Under the Iron Sea” fu pubblicato il 12 giugno 2006 e mio padre se ne sarebbe andato il 29 agosto: tutto quell’agosto fu all’ospedale e io lavoravo e andavo a trovarlo, uscivo e rilavoravo, non facevo altro. Negli spostamenti il cd di “Under the Iron Sea” faceva capolino nel lettore dell’auto, così, per non pensare. Mi colpiva soprattutto un pezzo, “Crystal Ball”, il cui video mi mandava fuori di testa: c’era un agente immobiliare, impersonificato da Giovanni Ribisi (un attore hollywoodiano che ha fatto tantissimo e forse avrebbe meritato di più), che partiva alla mattina dalla sua casa familiare e quando tornava a casa qualcuno era diventato lui, aveva perso la sua identità da un momento all’altro e ciò era sconvolgente: era come se non fosse mai esistito. Una situazione alla “Ai confini della realtà”, con l’interessante scelta artistica (questa volta sì) di mettere i dialoghi del video a un volume più alto della musica, quasi che il video si trasformasse in una mera colonna sonora di un cortometraggio. Non in tanti l’hanno fatto, nel tempo, quindi per questo onore ai Keane. Ma sto divagando.
Lo straniamento del video mi ha sempre atterrito, quasi che fosse una paura atavica di scomparire, di non essere mai vissuto, e cosa c’è di più sconvolgente della morte di un genitore? Cosa distrugge di più la tua vita? Non molti altri avvenimenti, nella vita, lo fanno in maniera così forte. Cancellano il tuo essere, e tu devi ricostruirlo, a forza, con tenacia.
Il testo amplificava questo sentimento di scomparire (“I’m not here This isn’t happening”, dicevano i Radiohead):
I lost my heart, I buried it too deep… I’m not sure I’m even here,
The more I look the more I think that I’m
Starting to disappear.
La copertina di “Under the Iron Sea” mi è sempre parsa, inoltre, con un bell’afflato artistico: i “cavalloni” del mare diventano letteralmente tali, e sono talmente grandi da affondare una qualsiasi barchetta ma, allo stesso tempo, ce ne sono un paio che piangono. Come a dire che non conta quanto tu sia forte, verrà il giorno in cui piangerai. L’artwork è opera dell’artista finlandese/britannica Sanna Annukka di Brighton, nell’East Sussex (la stessa contea da cui provengono i Keane), che a quel tempo aveva 23 anni, si era laureata l’anno prima e che dimostra con questa copertina – a mio parere – una capacità grafica notevole.
Insomma, alla fine analizzando per bene quello che c’è in “Under the Iron Sea” non è così evitabile come si penserebbe, ma per me tutta questa analisi lascia il tempo che trova: nel mio mondo mentale il secondo dei Keane rimane e rimarrà solo e sempre legato a quel periodo. Che con il tempo si è esattamente sovrapposto ai sentimenti: il dolore della perdita si è confuso nel sapore agrodolce dell’album, perché dopo anni capisci che la morte non può bastare a sé, non può essere il riferimento, la morte anzi ribadisce e amplifica quello che è stato in vita: quando si guarda alla morte di qualcuno quest’ultima accende invece un enorme riflettore sulla sua vita. I primi anni mi capitava di sentirmi in lutto all’anniversario della morte di mio padre, ma poi sono tornato a gioire solamente dei suoi compleanni (mancati), non so se mi sono spiegato. La vita torna sempre fuori.
Oh, crystal ball, crystal ball,
Save us all, tell me life is beautiful
(Paolo Bardelli)